Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  agosto 28 Giovedì calendario

La differenza tra ciò che noi vediamo di Israele e ciò che Israele vede di sé

Una distanza profonda va aprendosi tra ciò che noi vediamo di Israele e ciò che Israele vede di sé. È uno iato che rende difficile persino interpretare i fatti, sempre sospesi tra verità e menzogna, mentre il discredito internazionale di Netanyahu e dei suoi ministri aumenta di strage in strage, l’ultima delle quali all’ospedale Nasser di Khan Younis. Ancora martedì il Paese è stato attraversato da un’ennesima ondata di proteste, con blocchi stradali e cortei contro la guerra condotta a Gaza ormai da quasi settecento giorni. 
L o scontro asimmetrico tra una potenza altamente tecnologizzata e un gruppo terrorista incistato dentro la propria popolazione può avere forse un esito scontato: ma ha di sicuro un costo difficile da sostenere per chi continua a proclamare, almeno a parole, i valori di una democrazia occidentale. 
La contestazione al premier, di cui molti invocano le dimissioni, è cresciuta di fronte all’ulteriore intensificarsi dei piani d’attacco contro la Striscia, ormai proiettati verso una vera occupazione militare a dispetto di ogni mediazione. Un sondaggio dell’emittente pubblica Kan ha rilevato che solo il 28 per cento sostiene il nuovo piano, convinto che la sua realizzazione significherà la morte degli ultimi ostaggi rimasti in mano ad Hamas. Un buon 70 per cento chiede un accordo che li riporti a casa e la fine della guerra, risparmiando così la vita di tanti giovani soldati, figli e nipoti dei manifestanti che vediamo in tv. Queste immagini e questi numeri possono convincerci che la politica di Netanyahu verso la Palestina si regga solo grazie alle grucce estremiste dei vari Ben-Gvir e Smotrich e, dunque, che basti poco, in fondo, per ricondurre Gerusalemme lontano dai deliri della destra religiosa e dall’espansionismo dei coloni. Ma si tratta, probabilmente, di un’illusione ottica.
Un sondaggio di luglio dell’Israel Democracy Institute, rilanciato dall’Ispi, rileva che secondo il 78 per cento degli ebrei israeliani «Israele sta facendo il necessario per ridurre le sofferenze dei palestinesi a Gaza». Come si tengono assieme dati e fatti in apparenza così contrastanti? Accettando la perturbante tesi che il motivo del dissenso dal governo non sta nel destino dei palestinesi ma in quello degli israeliani stessi, ostaggi o soldati che siano. L’analista Dahlia Scheindlin sostiene su Foreign Affairs che il premier potrà anche cadere alle elezioni del 2026 ma difficilmente questo cambierà l’atteggiamento del Paese sui Territori, tema assoluto di sicurezza: «Gli israeliani sono d’accordo con il governo su molte questioni più profonde e a lungo termine. Sia l’opinione pubblica anti-Netanyahu che i principali partiti di opposizione differiscono poco dall’attuale leadership sul futuro status dei palestinesi, sull’inevitabilità dell’occupazione israeliana in generale e sull’accettabilità di negare l’autodeterminazione o, in alternativa, la democrazia e i diritti civili ai palestinesi nei Territori». 
Può essere un punto di vista troppo cupo. Ma anche chi, nell’opposizione, ha tuonato come il democratico Yair Golan contro le uccisioni dei bimbi gazawi, non si espone granché sul punto. Tanti che due anni fa invocavano «democrazia!» nelle proteste contro la riforma giudiziaria di Netanyahu non ritenevano un problema democratico la sorte dei palestinesi. Secondo un sondaggio dell’Alliance for Middle East Peace, l’88 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 21 anni pensa che Israele resti uno Stato democratico anche controllando la Cisgiordania, dove i palestinesi non possono votare alle elezioni israeliane. 
Il trauma del 7 Ottobre ha compromesso insomma un quadro già precario: creato da una lotta per la sopravvivenza che dura dalla fondazione dello Stato e che non poteva non alterare alla lunga la natura della democrazia laica e sionista. Un mese dopo il pogrom del 2023, Amir Tibon, un ultrademocratico giornalista di Haaretz impegnato sino ad allora a dare lavoro ai gazawi in uno dei kibbutzim attaccati da Hamas, scriveva: «Un Paese che non uccide le persone che hanno tentato di uccidere le mie figlie, e coloro che le hanno mandate, ha perso il diritto di esistere». Per tragico che ci appaia, la maggioranza degli israeliani è ancora ferma lì. 
Finché gli Stati Uniti sono rimasti una democrazia liberale ancorata ai diritti umani questa deriva è stata rallentata. Il via libera di Trump a Netanyahu ha fatto saltare l’ultimo argine. Lo scrittore Etgar Keret partecipa ogni sabato a una veglia serale a Tel Aviv durante la quale espone in silenzio la foto di un bimbo di Gaza morto in un attacco dell’Idf: alcuni passanti gli hanno gridato che i bimbi gazawi morti non esistono, sono frutto dell’intelligenza artificiale e della propaganda di Hamas. Il divorzio totale dalla verità del nemico è uno dei frutti più tossici di ogni guerra. L’autocensura di molti media israeliani ricorda quella dei media americani dopo l’11 settembre, un moto spontaneo di allineamento alle ragioni della sicurezza nazionale che li indusse per anni a sorvolare sulle bugie di Bush, su Guantanamo, sul Patriot Act. Dall’altro lato Israele ha dovuto confrontarsi con un diffuso antisemitismo giunto a relativizzare il pogrom e a presentare come partigiani d’un movimento di resistenza i terroristi che tiranneggiano il loro stesso popolo. Sminuire gli stupri del 7 Ottobre o negare la fame di Gaza sono facce di una disumanizzazione che parte dal linguaggio e desertifica le coscienze. «I conflitti più tremendi sono non di rado quelli che scoppiano fra due perseguitati (…). Forse stanno proprio così le cose fra ebrei e arabi, da un centinaio d’anni», scriveva Amos Oz. Riconoscere reciprocamente questa condizione in terra di Palestina sarebbe il primo passo per trovare almeno il senso comune d’una parola: vittima.