Corriere della Sera, 27 agosto 2025
Gli assassini (mancati) del duce
«Che mi disse? Mi colmò di silenzio. Un melanconico silenzio di chi s’è impigliato in una rete e non sa più come uscirne. Io gli esposi la situazione morale in cui s’era posto Mussolini considerato un assassino dalla maggioranza degli italiani, l’avversione spontanea del paese verso il regime ormai screditatosi con il delitto Matteotti, le speranze che il popolo nutriva per un intervento della Corona. Lui mi ascoltava, guardandomi con un’aria di cane frustrato. (...) Gli dissi che mettevo a sua disposizione, per un eventuale colpo di Stato, il fior fiore dei miei ufficiali e gli alpini più risoluti. Abbozzò un sorriso, ma non mi rispose...».
Andò davvero così l’udienza con Vittorio Emanuele III narrata tanti anni dopo da Tito Zaniboni, tre medaglie d’argento nella Grande Guerra, ex deputato socialista trombato alle elezioni del ’24, incorreggibile dongiovanni, ciarliero cacciatore dei sicari di Matteotti prodigo di scoop sballati, espulso dal partito con l’accusa d’aver fatto sparire un grosso finanziamento dei compagni europei e ansioso di rifarsi una verginità con un gesto eclatante? Mah...
Fatto sta che il 4 novembre 1925, dopo aver girato mezza Italia chiedendo soldi e appoggi e prenotato col segretario Carlo Quaglia tre camere d’albergo con nomi di fantasia («Angeli» e «Cherubini»!) il cecchino si fa beccare di buon mattino all’Hotel Dragoni (lo stesso usato dagli assassini di Matteotti) col fucile già puntato sul balcone di Palazzo Chigi dove ore e ore dopo dovrebbe affacciarsi il Duce. Sorpresa!
Il verbale del successivo 14 aprile 1927 del confronto in tribunale fra l’ex deputato e il suo assistente, indebitato per le donne e il gioco d’azzardo e da mesi pagato dalla polizia per titillare la vanità dell’aspirante tirannicida spingendolo a compromettersi il più possibile, resterà agli atti. Zaniboni: «Quaglia replicatamente pretendeva da me l’onore di sparare sulla persona del Capo del Fascismo!». Quaglia: «Tu menti! Tu menti!!». Zaniboni: «Lo giuro sulla testa della mia bambina e sul mio onore. Il Quaglia inoltre mi portò l’orario dei festeggiamenti del 4 novembre e potei così sapere che il presidente del Consiglio si sarebbe affacciato alle 12.30. Alle 8.30 mi invitò a mettere a posto il fucile…». Quaglia: «Dichiaro di non avere mai neppure concepito l’idea di attentare alla vita sacra dell’on. Mussolini! (...) Iddio mi fulmini se io anche per un momento ci ho pensato!».
In realtà, perfino il «Popolo d’Italia» di Arnaldo Mussolini l’aveva scritto subito: «Il complotto è stato seguito fin dall’inizio dall’on. Federzoni e da tutti gli organi che ubbidiscono ai suoi ordini; in tutti i suoi sviluppi esso è stato accompagnato dalla discreta e vigile sorveglianza della Polizia, alla quale non è sfuggito un gesto in nessun momento, né dei congiurati, né di coloro che a essi davano ispirazione e appoggio. Volendo, la Polizia avrebbe potuto soffocare il complotto subito...». Perché aveva atteso? Perché, appunto, era una trappola. Indispensabile, scrive Mimmo Franzinelli in Colpire Mussolini. Gli attentati al duce e gli albori della dittatura fascista (in uscita da Mondadori) per «manipolare a proprio vantaggio» i fatti «consolidando in modo decisivo il potere». Come accadrà a Berlino con l’incendio del Reichstag sfruttato da Hitler per scatenare la caccia agli oppositori del nazismo o a Leningrado con l’uccisione del gerarca Sergej Kirov usata da Stalin per epurare i ranghi bolscevichi di migliaia di dissenzienti.
Violet Gibson
venne spedita in un manicomio inglese, per un altro ci fu
chi si offrì come boia
Ci provarono in quattro, in un anno, ad ammazzare «M». Il primo fu appunto l’ex parlamentare che in carcere avrebbe poi chiesto aiuto (concesso) al duce per laureare la figlia. La seconda Violet Gibson, la «mistica col revolver» inglese con turbe religiose che aveva immaginato già di far fuoco su Pio XI e sparò al dittatore (sfiorandogli il naso) davanti al Campidoglio il 7 aprile 1926 ma era così fuori di testa che il regime stesso, caduta l’ipotesi di imbastire una teoria cospiratoria, la spedì a seppellirsi in un manicomio inglese. Il terzo l’esule anarchico toscano Gino Lucetti, che rientrò da Parigi per lanciare l’11 settembre 1926 una bomba a mano sull’auto presidenziale a Porta Pia: Mussolini illeso, otto feriti, trent’anni di carcere dignitosamente scontati fino alla fine del regime e conclusi con la morte beffarda a Ischia per un proiettile vagante in uno scontro al quale era estraneo. Il quarto Anteo Zamboni, un ragazzo bolognese di 15 anni dalle idee confuse (e ignote, pare, alla stessa famiglia mandata a processo) che il 31 ottobre 1926 fu visto sparare un colpo mentre il despota sfilava su un’auto scoperta e linciato sul posto dalla folla inferocita tra la quale c’era l’avvocato fascista Arconovaldo Bonaccorsi, che l’anno prima, dopo il complotto di novembre, aveva spedito un telegramma: «Offromi come boia per decapitare arrestati».
Una sequenza di eventi slegati l’uno dall’altro, stando ai documenti recuperati da Franzinelli e puntigliosamente riportati in 573 note, ma indissolubilmente legati dall’odio verso la dittatura e più ancora dalla scelta del regime di accomunare l’uno all’altro i tentati tirannicidi (teorizzati peraltro dall’antico Benito socialista come «pericoli del mestiere» per re e tiranni) per varare via via le «leggi fascistissime» e annientare una volta per tutte le opposizioni, avessero o meno un rapporto con gli aspiranti autori dei singoli attentati falliti.
Dicono tutto, il giorno dopo la trappola a Zaniboni e al suo presunto complice, il generale Luigi Capello, le parole del Duce dal balcone di Palazzo Chigi: «Il regime è assiso ormai su di una base infrangibile. Voi sapete che si sta energicamente provvedendo per ripulire tutti gli ambienti infetti e per cauterizzare tutti i covi antinazionali». Come non approfittare del tripudio? «Mussolini vivo, è un gigante; non si può combattere, non si potrà mai vincere; Mussolini è la montagna di granito contro la quale cozzano e si infrangono tutti i tentativi di sedizione», esulta «La Provincia di Brescia». «L’Italia salvata da un’immane sventura», strilla il «Giornale del Friuli». «Lieti della sua incolumità la Regina ed io ci affrettiamo ad esprimere la nostra più viva felicitazione», scrive il Re che, ricordando al capo del governo il collare dell’Annunziata concessogli l’anno prima si firma «Affettuosissimo cugino Vittorio Emanuele».
Pochi giorni e l’articolo «Fino in fondo» su «Cremona Nuova» dell’allora segretario del partito fascista Roberto Farinacci spazza via ogni dubbio sui destini di ciò che resta della democrazia: «Si proceda contro i pseudo-costituzionali e la loro stampa senza esitare; si proceda energicamente, immediatamente, fascisticamente!». Di più: «Non bisogna sorvolare sul “Corriere della Sera”. L’organo del senatore Albertini – le sue proteste contro il crimine non devono illudere nessuno – ha anch’esso una gran parte di responsabilità nella preparazione spirituale del complotto Zaniboni-Capello e soci. Perciò o il senatore Albertini cede il giornale o è giusto che esso sia sospeso sine die! Nessuna considerazione deve trattenere il Governo: oggi, il regime è in grado di poter fare quanto ritiene necessario per essere più forte e intangibile! Non ci si deve preoccupare se all’estero gli stranieri, compari degli oppositori italiani, strilleranno. Lasciamoli strillare: in casa nostra siamo padroni noi e facciamo i comodi nostri!».
E li fecero, i comodi loro. Li fecero davvero.