La Stampa, 27 agosto 2025
Biografia di Lidia Ravera
Trascorre tre mesi l’anno alle Eolie, non a caso la incontriamo al Salina Doc Fest. Lidia Ravera, 74 anni di cui 50 di scrittura, con 37 libri e 64 sceneggiature sulle spalle, dopo aver pubblicato Volevo essere un uomo (Einaudi) ha scritto lo spettacolo Il terzo tempo, tratto dall’omonimo romanzo, che andrà in scena nel 2026 al Teatro Franco Parenti. Con lei il marito, il regista Mimmo Rafele, che ogni tanto rimprovera. Lui risponde con un sorriso: «Lidia è faticosa, ma è la donna migliore del mondo».Il suo primo amore?«Un garzone dei mercati generali. Avevo 14 anni, lui 23. Era stato anche in prigione brevemente. Tale Michele. Quando mio padre lo venne a sapere, fece un teatro e la cosa finì lì, ma io mi sentii un’eroina del dissenso».Ci si sente ancora?«No perché non ne pago il prezzo, oppure pago prezzi ridicoli».Per esempio?«Non essere invitata ai festival importanti, non vincere mai se non cose marginali che pur benedico. Non sono coccolata, il prossimo anno faccio 50 anni di carriera e a nessuno viene in mente di darmi un cazzo di premio. Mi piovono solo i premi dei lettori, e ne sono felice».Il successo è stato più una fortuna o una disgrazia?«Oggi il successo è un valore assoluto, per me era un disvalore che ho subìto, ma non desiderato. Anzi per me è stata una violenza, mi ha causato solo guai».Addirittura?«Ha bloccato la mia immagine a una ventenne birichina, oggi che sono una settantenne consapevole mi guardano male. Poi nell’industria borghese della cultura il successo veniva malvisto, gli amici mi voltarono le spalle, il fidanzato mi lasciò, fui aggredita, vituperata dai miei compagni di sinistra. Mi scusavo continuamente con tutti, non avendo le spalle ancora abbastanza larghe per l’invidia, la lusinga a doppio senso, e altre amenità di cui sono capaci gli esseri umani».Perché scrive da cinquant’anni?«Mi riesce facile, mi piace da morire e lo farei anche se nessuno mi pagasse».Ha scritto tanto anche per il cinema.«Controvoglia, perché la sceneggiatura non ha la dignità del romanzo, se non diventa un film non è niente. Amo scrivere per il teatro, essere dietro un angolino e vedere che il pubblico ride è bellissimo, un piacere quasi infantile».Ama il cinema?«Molto, Mimmo è un cinefilo autentico. Ricordo un giorno con nostro figlio decenne, in auto verso le vacanze con lui seduto dietro con il game boy in mano. Con Mimmo parlavamo di una scena irrisolta e nostro figlio ci snocciolò una soluzione su due piedi. Non a caso poi è diventato autore e sceneggiatore. Mimmo comunque mi ha tolto dal tallone di Goffredo Fofi che seguivo in tutto ciò che diceva – mi dispiace molto che sia morto – ma mi faceva vedere solo Totò e nient’altro. Non Bertolucci, perché lo riteneva cinema borghese, ma tanto cinema militante latino-americano. Mimmo mi ha salvato da tutto questo e accompagnato a vedere film di ogni tipo, anche se mi costringe ancora a vedere film contemporanei».A lei non piacciono?«Preferisco rivedere ogni tanto l’usato sicuro, capolavori come L’uomo che uccise Liberty Valance. Apprezzo le serie tv, su tutte Squid Game, una metafora strepitosa del capitalismo di cui ho divorato tutte le stagioni».Il cinema come l’editoria, da settore dominato dagli uomini, si sta aprendo a tante voci femminili.«Oggi siamo in tante a scrivere e a pubblicare, veniamo però ancora complessivamente prese meno sul serio».Eppure a capo del governo abbiamo una donna.«Io aspetto una donna che faccia cose per le donne e che sia portata lì dalle donne. Invece lei vuole essere chiamata il presidente, ha atteggiamenti maschili quando cammina con passo da bersagliere e marcia intorno agli uomini con quei tailleur pazzeschi. È una “uoma”, come molte delle donne che ce la fanno ad arrivare ai piani alti e hanno accettato la lingua del nemico, quella dominante. Se non parli uomese sei tagliata fuori dal potere».Le cose non stanno cambiando?«Siamo in un momento delicato, quello delle lusinghe. Le più ingenue scambiano questo momento per un vero cambiamento, ma con il “Quanto siete brave voi” continuano a fotterci, ad essere pagati e rispettati di più loro (gli uomini, ndr), a essere considerati anche da vecchi, perché agli uomini la vita toglie, a noi aggiunge».Volevo essere un uomo, titolo del suo romanzo, è stato un suo desiderio?«È una confessione. È il libro più femminista della mia vita, ho cercato le radici della mia disperata voglia di essere maschio».Da cosa nasceva?«Nasco negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando si diceva “Auguri e figli maschi”, incuranti delle bambine in ascolto. Mia madre diceva che non mi volevano e sono arrivata lo stesso, ma potevo essere un maschietto perché “Noi la figlia femmina ce l’abbiamo già”. Cresciuta con la sensazione di aver deluso mia madre, non facilissima, sono cresciuta disprezzando le donne perché disprezzavo mia madre. Poi ho letto Gita al faro di Virginia Woolf, ho scoperto la signora Ramsay, e allora mi sono detta che volevo essere una donna. Anche per rovesciare il tavolo dell’ordine simbolico del padre che ci ha portato fino ad accettare che ci siano bambini che muoiono di fame a Gaza. Siamo circondati di violenza, anche verbale, dobbiamo sostituire le parole della forza con la solidarietà, l’empatia, l’ascolto, la compassione».Si è mai sentita discriminata perché donna?«Ho scoperto presto di essere discriminata e questo è stato il carburante della mia vita. La prima volta avevo 16 anni, tenevo nel mio liceo occupato un controcorso che si chiamava Contro la famiglia. In aula Magna, mentre tiravamo le fila dell’occupazione, parlavano solo i maschi. E io friggevo perché sapevo bene cosa dire e come dirlo, sarei stata trascinante perché ho un’anima comiziante. Invece parlava uno molto più impreparato, mi chiedevo perché. Sono cresciuta scusandomi per il talento per la scrittura e la parola, nessun ragazzo aveva voglia di fare un passo indietro e cedere il posto a una come me».Se fosse un uomo cosa farebbe?«Intanto mi attaccherei al mio privilegio o a quel che ne resta e venderei cara la pelle. Poi alla mia età sarei uno scrittore autorevole, non brutto perché corro, con file di trentenni al seguito. Un grande vecchio è una persona stimabile, la grande vecchia invece solo un corpo scaduto. Ci trattano ancora come mozzarelle scadute, mentre noi ambiamo solo a essere persone».Come vive il tempo che passa?«Al tempo degli orologi preferisco il tempo delle stagioni, vivo una gioiosa primavera. Da giovane, avendo la pretesa di felicità e tante aspettative, sono stata molto infelice. La vecchiaia invece è un momento di grande fermento intellettuale e morale, se smettessimo di vergognarci di una società consumista e di riposizionarci la pelle sulla faccia, potremmo viverci gli ultimi anni o decenni della nostra vita autenticamente liberi, come avventurieri. Specie noi donne, passando da essere oggetto del desiderio altrui a soggetto del nostro».