Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  agosto 26 Martedì calendario

Intervista a Marco De Luca


Doppiopetto e pochette, l’avvocato Marco De Luca fa strada fra queste stanze silenziose. Ci sono stucchi, velluti, opere d’arte, manuali di diritto, codici. Dalle finestre spunta imponente il torrione del Castello Sforzesco che da lassù avrà visto bussare a queste porte molti protagonisti della finanza e dell’imprenditoria del nostro Paese. «Ho scoperto che un secolo fa questa casa era di Luigi Albertini (lo storico direttore del Corriere, ndr) e che l’ha venduta quando fu cacciato dal regime fascista», dice compiaciuto De Luca. Una segretaria sorride cortese dietro il vetro, lui indica l’olio su tela del Palagi che copre una parete, infila l’ultima porta e si ferma: «Eccoli».
Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, Montedison, Parmalat, Pirelli, Alitalia, British Telecom, Antonveneta, Eni, Fiat, Cir, Ilva, Raul Gardini… Sono i fascicoli monstre. Mezzo secolo di scandali finanziari, di processi infiniti, di misteri. Un archivio che racconta la storia del malaffare d’Italia, con qualche sporadica incursione in ambienti più leggeri ai quali De Luca è affezionato: il Milan, la Ferrari, il Teatro alla Scala.
Settantottenne in buona forma, la calma e la riservatezza come regole esistenziali, dopo decenni di «mi spiace, non parlo» l’avvocato dei potenti ha deciso di raccontare l’intricato mondo in cui ha lavorato per una vita.
Come si arriva a essere l’avvocato di tutti quelli che contano?
Allunga la mano ed estrae da uno scaffale un quadernetto, lo apre, è scritto a mano.
«Michele Sindona, ha presente? Avevo 33 anni e la fortuna di avere un maestro come Alberto Crespi, professore di diritto penale e avvocato. Grazie a lui mi ritrovai ad assistere i familiari del banchiere. Crespi non amava la visibilità e quella era una vicenda da riflettori puntati. Andai così io a incontrare Sindona in America, nel carcere di Springfield, Missouri, dove stava scontando una condanna per bancarotta fraudolenta. Ricordo bene le sue parole in quel primo incontro: “Io penso di non avere un gran futuro, vorrei che lei si occupasse della mia famiglia, di mio genero, di mia figlia, di mio figlio”. Fu un’esperienza dura e formativa».
Anno 1980. Sindona, bancarottiere siciliano fondatore di un impero finanziario che ruotava intorno alla Banca Privata Italiana (Bpi), incarnava il grande crimine economico: soldi sporchi, mafia, P2, Vaticano, speculazioni internazionali, corruzione. Condannato per il crac della Franklin National Bank di Manhattan, verrà estradato e processato in Italia come responsabile numero uno del fallimento della Bpi e condannato come mandante del delitto dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della sua banca. Fu ergastolo e due giorni dopo Sindona si suicidò nel carcere di Voghera con un caffè al cianuro.
Storia pazzesca, dubbi sul suicidio?
«No, me l’aveva detto: non passerò la vita in carcere».
E sul delitto Ambrosoli?
«Nessuno neppure lì, il mandante è Sindona, ma non lo difesi io in quel processo, non volli per non coinvolgere la famiglia. La cosa più importante fu comunque il procedimento contro le banche, Bpi e Unione, che diventò gigantesco perché si congiunse al dissesto del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi».
La verità più grossa che è stata nascosta?
«C’è un mistero lungo oltre tre anni: va dal novembre 1978, quando un rapporto ispettivo della Banca d’Italia denunciò l’opacità del sistema con le crisi che emergevano, le normative aggirate dall’Ambrosiano e le strutture estere poco trasparenti, fino all’agosto 1982 quando è stata dichiarata l’insolvenza dello stesso. Il rapporto era stato inviato dal governatore Ciampi alla Procura di Milano che assegnò il fascicolo al giudice istruttore Emilio Alessandrini. Ero amico di Alessandrini, ci giocavo a tennis, penso che lui avrebbe di certo fatto qualcosa se non fosse stato ucciso un mese e mezzo dopo l’incarico dai terroristi di Prima linea (sui quali indagava, ndr). In seguito alla sua morte né Ciampi né la Procura né altri fecero nulla. Perché? Questo è un periodo rimasto molto oscuro».
E lei cosa pensa, perché?
«Non saprei ma so come finì la storia. Dopo la scomparsa di Calvi (trovato impiccato a Londra, ndr) si rivolse a me Roberto Rosone che era stato chiamato a fare pulizia all’Ambrosiano. Gli dissi di incontrare monsignor Marcinkus dello Ior (la banca del Vaticano, ndr) per chiedergli di supportare il Banco Ambrosiano visti i trascorsi. Rosone andò a Roma ma tornò sconvolto perché Marcinkus non riconosceva le lettere di patronage che avrebbero dovuto impegnare finanziariamente il Vaticano. A quel punto gli consigliai di chiedere alla Banca d’Italia di commissariare il Banco perché non c’erano alternative. Fu la fine».
Sindona, Calvi, Ambrosiano, Ior, omicidi eccellenti. E lei aveva poco più di 30 anni
«Ero molto preoccupato, sentivo la storia del Paese gravarmi addosso. Ma fu anche un periodo di grande crescita professionale. A quel punto non c’era più nulla che potesse spaventarmi».
E sono arrivati i clienti di prestigio, i grandi imprenditori. Il suo preferito?
«Raul Gardini, un uomo geniale, con una visione del mondo tutta sua che anticipava i tempi di trent’anni, basti pensare all’utilizzo dei cereali per farne carburanti. Un altro geniale era l’avvocato Agnelli che mi affidò con Cesare Romiti le vicende di alcuni suoi dirigenti durante Tangentopoli. Aveva grande curiosità e rapidità di pensiero».
Chi le è rimasto amico?
«Amico vero solo Marco Tronchetti Provera, persona che stimo molto. Con lui tutto è nato da un proscioglimento per un’imputazione folle».
Il cliente più complicato?
«Quello che non racconta la verità e ti mette nei guai. Di bugiardi ne ho conosciuti un bel po’, soprattutto per le vicende di Tangentopoli. “Non ho fatto assolutamente niente, avvocato, mi creda”. Poi andavo da Di Pietro e capivo che l’aveva fatto».
Cosa pensa di Di Pietro?
«Grandissimo inquirente con uno straordinario acume investigativo e anche molto leale, se prometteva una cosa era stampata sul metallo».
Un cliente famoso che ha abbandonato?
«Patrizia Reggiani per l’omicidio di Maurizio Gucci. Non condividevo la sua tesi, non ci andai più d’accordo e rinunciai al mandato».
Il regalo più importante ricevuto da un cliente?
«Durante l’interrogatorio di Claudio Cavazza di Sigma Tau davanti Di Pietro, mi chiamò mio figlio: papà la tua Mercedes è stata rovinata di brutto nel parcheggio. Mi inquietai, Cavazza mi guardò: “Ma non si preoccupi avvocato, ci penso io, ora seguiamo questo interrogatorio”. Di Pietro rise, l’interrogatorio finì e Cavazza fu scarcerato. Poi mi disse: faccia la sua parcella e la moltiplichi per due. Feci una parcella normale. Dopo due giorni mi chiamò la Mercedes: “C’è un’automobile che deve ritirare”. “Ma io non ho comprato nulla”. “È stata ordinata per lei”. “Da chi?”. “Dal dottor Cavazza”».
Minacce subite?
«A 30 anni difendevo le Brigate Rosse. Era un processo particolare, seguiva di un mese l’omicidio dell’avvocato Fulvio Croce a Torino, giustiziato dai brigatisti come simbolo di un sistema che volevano sovvertire. La colpa di Croce era stata quella di assumere la loro difesa dopo che avevano revocato gli avvocati. Alla prima udienza entrai in aula, mi sedetti e Renato Curcio si rivolse a me: “Non abbiamo bisogno di difensori d’ufficio, vattene”. “Non me ne vado”. E lui: “Per noi è un atto di guerra e a un atto di guerra rispondiamo con un atto di guerra”. Ora posso dirlo: mi si gelò il sangue. Ma non possiamo parlare di cose belle?».
Ce ne sono?
Prende un fascicolo rosso: Ferrari.
«La difesi contro la McLaren in una vicenda di spionaggio industriale. Riuscimmo a far condannare il personaggio infedele che aveva trasmesso i dati della nuova macchina alla McLaren, che fu squalificata mentre la Ferrari, che era seconda, vinse il campionato costruttori. Ma quello più bello in assoluto fu il Teatro alla Scala. Era un caso di omicidio colposo per patologie connesse all’amianto e dimostrammo che il Teatro aveva curato ogni possibilità di contaminazione. Tutti assolti, grande gioia».
Alla Scala avrà un palco
«Il palco no ma devo dire che quando chiedo qualche piccolo favore mi viene fatto».
E questo fascicolo sul Milan?
«Calciopoli, abbiamo evitato la serie B in primo grado e in secondo siamo stati riammessi alla Coppa Campioni e l’abbiamo pure vinta. Non le dico i complimenti di Berlusconi, l’amicizia con Galliani dura tuttora».
Lei ha difeso anche i grandi gruppi accusati di reati ambientali, Montedison su tutti. Che rapporto ha con l’ambiente?
«La difesa dell’ambiente dovrebbe essere una questione prioritaria delle normative di tutto il mondo. Se la politica non pensa al green l’umanità è destinata alla scomparsa».
Lei difendeva chi inquina ed è ambientalista?!
«Tutti gli imputati hanno dei diritti e io come avvocato devo cercare di farli valere cercando di ottenere dal processo il minor danno possibile. Questa è la mia filosofia».
Ha mai avuto un cliente povero?
«Certo e l’ho assistito con piacere».
Come andava a scuola?
«Non particolarmente bene ma me la sono sempre cavata».
La famiglia?
«Mia moglie Bianca, avvocato che ha smesso la professione qualche anno fa, è stata un sostegno irrinunciabile. Anche mio figlio Michele fa l’avvocato ma ha deciso di scegliere una via più imprenditoriale».
Se potesse tornare indietro cosa non rifarebbe?
«L’avvocato. È una vita dedicata alle cose brutte. Punterei a fare l’antiquario, il restauratore, attività che praticano le cose belle del mondo e riempiono l’anima».
Cosa facevano i suoi genitori?
«Commerciavano all’ingrosso, io sono il primo laureato in famiglia. Da giovane ho lavorato con loro. Si veniva a Milano ad acquistare frutta e verdura per poi venderla in Valsesia, la mia terra».
L’avvocato dei potenti vendeva frutta e verdura?
«Gliel’ho detto, sono un uomo fortunato».