Corriere della Sera, 26 agosto 2025
La sintonia tra lo zar e Donald
L’8 agosto Donald Trump ha annunciato che di lì a una settimana avrebbe incontrato Vladimir Putin in Alaska. Accantonò, quel giorno stesso, la richiesta di una tregua d’armi dal momento che, rivelò, «il suo istinto» gli diceva che la pace era a un tiro di schioppo. Poi, a Ferragosto, vennero i tappeti rossi e la genuflessione all’autocrate russo. Mentre l’Ucraina subiva millecinquecento attacchi contro abitazioni e infrastrutture civili. Due giorni dopo Trump incontrò Volodymyr Zelensky accompagnato dai maggiorenti d’Europa e rassicurò gli ospiti. Lasciò circolare notizie contraddittorie circa la sua intenzione di continuare a proteggere l’Ucraina e fece trapelare l’indiscrezione che presto Zelensky avrebbe visto Putin a tu per tu. Tutte fandonie. Al che i più importanti media americani hanno cominciato a domandarsi: quand’è che Trump si accorgerà che Putin lo sta prendendo per il naso?
Domanda ingenua. Trump agisce in tutto e per tutto d’accordo con Putin. I due fanno a gara nell’avere in antipatia Ucraina ed Europa. E solo l’abilità dei leader Ue, accompagnata da parole talvolta poco onorevoli di adulazione, riesce a far sì che questa idiosincrasia non venga definitivamente allo scoperto. Caso mai la domanda giusta dovrebbe essere: perché Putin umilia così platealmente Trump al punto da farlo apparire ridicolo?
Q ui c’è una sola risposta: perché se lo può permettere. Lui sì che «ha le carte» per poter trattare il presidente degli Stati Uniti come un guardamacchine. Non sappiamo di che carte si tratti me è fuor di dubbio che al Cremlino le abbiano. E per i prossimi tre anni e mezzo – tanto durerà il mandato di Trump – i russi non faranno mistero del possesso di questo tesoretto. Con le immaginabili catastrofiche conseguenze per quel che riguarda l’ottantennale leadership americana sull’Occidente. L’Ucraina sotto questo profilo è – se così si può dire – la più fortunata perché, dotata di armi provenienti da quel che resta dell’Occidente, sa combattere da sé. Non vincerà, nel senso di ricacciare i russi oltre i confini violati il 24 febbraio 2022 (come chi scrive ha creduto per un certo tempo fosse possibile). Ma è in grado di far pagare al nemico un prezzo doppio o triplo di quel che gli imposero negli anni Ottanta gli afghani. E che, sia detto per inciso, determinò o contribuì a determinare il crollo dell’Urss. La consapevolezza di questo, quantomeno la sensazione che possa andare a finire così, può indurre Putin a cercare un accordo di pace
Dal momento che stiamo facendo un bilancio dell’agosto ucraino, è interessante prender nota di quello che ci ha fatto notare (su queste pagine) l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, da gennaio presidente del Comitato militare della Nato: i materiali militari inviati nel mese estivo a Kiev, valore un miliardo e mezzo, sono stati pagati per un terzo dai Paesi Bassi, un terzo dalla Germania, l’ultimo da Danimarca, Finlandia e Svezia. E se all’occorrenza dovessero essere inviati dagli uomini anche solo a presidio di una tregua affidabile per l’Ucraina, se ne darebbero carico esclusivamente i «volenterosi» e quei Paesi che hanno pagato. Più qualcun altro del nord europeo.
Quanto detto ci aiuta a capire che la polemica del vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini con Emmanuel Macron è tutt’altro che un futile esercizio di battutismo vernacolare. Il significato vuol essere chiaro: mai e poi mai l’Italia manderà propri militari in Ucraina. Forse, avverte con una certa regolarità il ministro della Difesa Guido Crosetto, ne invierà qualcuno «sotto le bandiere dell’Onu» (e tutti capiamo cosa questo significa). Semmai, si è sbilanciato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, potremmo spedire in quelle contrade alcuni «sminatori». Ma anche questo, vedrete, sarà materia di controversia.
Morale di fine agosto: la guerra d’Ucraina (come del resto quella di Gaza) molto probabilmente non si concluderà con la fine dell’estate. Trump e i suoi improvvisati mediatori si sono rivelati incapaci di portare a termine questa missione. Anzi, hanno complicato le cose, di settimana in settimana, facendo apparire la pace a portata di mano e provocando l’effetto di allontanarla. Ben che ci vada di qui a settembre verranno «conquistate» fragili tregue.
Dopo il fiasco di Anchorage tocca ai «volenterosi» prendere il posto di guida nella cabina di comando del fronte occidentale. Senza rompere né con gli Stati Uniti, né con il resto dell’Europa e tantomeno con la Nato al cui interno, anzi, deve prender corpo il nuovo nucleo di difesa da ogni ulteriore prova di aggressività russa. Non abbiamo ben capito se Giorgia Meloni intendesse qualcosa del genere quando ha ipotizzato l’applicazione all’Ucraina dell’articolo 5 della Nato (quello che prevede la reazione armata di tutti i Paesi dell’Alleanza nel caso dell’aggressione ad uno di loro). Può darsi. Ma allora la presidente del Consiglio dovrebbe al più presto illustrare qualche piccola questione di dettaglio a Salvini. Comunque, Italia o non Italia, anche i «volenterosi» farebbero bene a chiarire come si articola la loro catena di comando, quale effetto avrebbe un cambio di maggioranza in uno o più d’uno dei loro Paesi e soprattutto come si entra in questo club. C’è una tessera d’ingresso che impegna a determinati comportamenti o c’è una porta girevole da cui si entra e si esce a proprio piacimento? Trattandosi di guerra – anche se lo scopo è quello di offrire all’Ucraina e all’Europa una deterrenza sostitutiva di quella americana – non è questione da poco.