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 2025  agosto 26 Martedì calendario

Lucrecia Escudero ricorda Umberto Eco


Una lettera formale che nasconde una segreta richiesta d’aiuto e viaggia dall’Argentinaall’Italia. Siamo nel 1976 e a scriverla è una studentessa argentina di origine italiana, Lucrecia Escudero. È figlia di una famiglia borghese di Rosario, è un’attivista di sinistra e studia all’università. Mentre la dittatura di Videla terrorizza e imprigiona gli oppositori politici, in gran parte ragazzi della sua età e persino più giovani, mentre un’intera generazione di giovani, molti dei quali poi desaparecidos,inizia a riempire le carceri, lei scrive a un giovane professore dell’Università di Bologna che sta facendo scalpore in campo accademico con le sue opere.
Chiede di poter essere ammessa ai suoi corsi, ma in realtà sta anche domandando di avere un motivo ufficiale per lasciare l’Argentina, mettendosi così in salvo dal terrore della polizia, degli arresti, degli interrogatori, della morte.
Il professore a cui è indirizzata la lettera è il filosofo e semiotico Umberto Eco. Lui risponde immediatamente, Lucrecia riesce a salire su un aereo per l’Italia e si ritrova catapultata in un altro mondo: la Bologna del Dams e della contestazione, gli anni di piombo, ma anche una vita libera, inedita, meravigliosa. Un’avventura che Escudero, 75 anni, semiologa in pensione, già docente nelle università di Cordoba in Argentina, di Lille e della Sorbona Nuova a Parigi, rievoca con Repubblica : il suo ricordo del maestro è incluso in un libro di prossima pubblicazione in Spagna, a cura della giornalista e scrittrice Mayte Aparisi Cabrera. Uscirà nel 2026, a dieci anni dalla morte del semiologo, per le edizioni Jot Down e si intitolerà Umberto Eco (Desclasificado). Semiótica de la salvación. Semiotica della salvezza. Un titolo non casuale.
Professoressa Escudero, lei dice che Umberto Eco le salvò la vita aiutandola a lasciare l’Argentina della dittatura. Può raccontarci come andò?
«Era il 1976, studiavo filosofia e semiotica all’università di Rosario. La mia docente Rosa Maria Ravera, italo-argentina, che come Umberto Eco era stata allieva di Pareyson, ci fece leggere Opera aperta e
Apocalittici e integrati. Per me fu una rivelazione, mi sembrò geniale. Intorno a noi c’era un clima di violenza politica tremendo; la facoltà di filosofia era nel mirino perché ritenuta un covo di sovversivi. In quel periodo diciannove tra i miei amici furono arrestati. Alcuni di loro diventarono desaparecidos.
Insomma, lessi i libri di Eco e decisi di scrivergli una lettera per chiedere di poter studiare in Italia con lui. Volevo lasciare l’Argentina».
Si ricorda cosa c’era scritto
nella lettera che mandò a Eco?
«Certo. Era molto secca e semplice, non c’era nessuna richiesta esplicita d’aiuto. Non sapevo nemmeno se sarebbe arrivata, la posta in Argentina non funzionava granché. Ma per miracolo nel giro di poco mi arrivò la risposta di Umberto Eco che mi accettava tra i suoi studenti attraverso l’Istituto italiano di cultura che dava delle borse di studio. Avuta la notizia i miei genitori, per proteggermi, mi mandarono dritta da Rosario a Buenos Aires, ad aspettare chearrivasse il giorno della partenza».
Lasciava dietro di sé un Paese che imprigionava e torturava i suoi stessi figli…
«Esattamente. Era quello che diceva il generale Videla, no?
Non ci fermeremo, dovessimo arrivare ai figli, ai nonni, ai genitori. E consideri che in quegli anni la situazione argentina non era stata capita fino in fondo, i riflettori erano puntati sul Cile di Pinochet.
Quando sono arrivata in Italia, a Bologna, ho trovato un mondonuovo: un clima di libertà, un rispetto per i diritti umani che era sconosciuto per me. Capii anche che come esisteva un totalitarismo di destra, esisteva anche un totalitarismo di sinistra. In Argentina mi era mancata un’educazione alla democrazia».
Che ricordo ha di Eco in quegli anni?
«Quando arrivai mi disse che leggendo la mia lettera aveva avuto l’intuizione che c’era qualcosa sotto e che era davvero necessario aiutarmi a partire.
Provo per lui e i professori che poi sono diventati i miei amici, come Patrizia Violi, Patrizia Magli, Giovanni Manetti, una vera pléiade di giovani insegnanti nella sua cattedra di semiotica, una profonda gratitudine. Posso dire che a Bologna, accanto a loro, ho ricominciato la mia vita con una nuova famiglia».
Che professore era?
«Riusciva a spiegare la semiotica, che è molto astratta, complicata, con divertimento.
Aveva una capacità pedagogica notevole. Era ironico, se voleva sapeva esattamente dove colpirti con una battuta, ma anche autoironico. E curioso, genuinamente interessato a ciò che si muoveva nel cervello di noi studenti».
Nel 2016, prima di morire, nelle sue ultime volontà Eco scrisse “Non parlate di me”. Ha chiesto che per dieci anni non ci fossero convegni né iniziative ufficiali su di lui. Perché, secondo lei? Quale lezione ci ha lasciato?
«Quanto alla sua decisione di non volere che si parlasse di lui per dieci anni, penso sia stato il suo ultimo esperimento: era curioso di scoprire cosa sarebbe sopravvissuto della sua eredità intellettuale. Io credo che sia stato l’ultimo grande umanista che ci ha dato l’Italia. Da romanziere, penso aIl nome della rosa, è stato un innovatore, con l’idea del giallo colto, della suspense in uno scenario completamente inedito. Come semiologo, ha capito perfettamente la tecnologia e il funzionamento dei mezzi di comunicazione di massa. E ha intuito il meccanismo delle fake news che oggi domina la politica. Penso che il suo sguardo, anche sull’Intelligenza artificiale, oggi ci manchi. Ci servirebbe moltissimo. E ciò che ci ha lasciato può ancora aiutarci a capire cosa sta succedendo».