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 2025  agosto 26 Martedì calendario

Andrea Camilleri raccontato da Luca Crovi


C’è una strage dimenticata, nella vita di Andrea Camilleri, di cui lui non ha quasi mai parlato. Non ha niente a che fare con l’omonimo titolo del suo debutto in Sellerio: risale a molto più tardi. È il 1986: una domenica di metà settembre, lo scrittore è tornato per qualche giorno nella sua Porto Empedocle, sta bevendo un whisky in un bar prima di rincasare, quando un commando di Cosa Nostra spara sui tavoli con l’obiettivo di decapitare la cosca rivale. I morti sono cinque, diversi i feriti. Camilleri, che ovviamente si trova lì per caso, la scampa: scivola sul sangue delle vittime, poi torna a casa e chiama la moglie Rosetta, rimasta a Roma, per tranquillizzarla. «Quella strage lo segnerà per sempre», racconta Luca Crovi che a Camilleri, in occasione del centenario della nascita, ha deciso di dedicare una biografia, in uscita il 26 agosto per Salani (Andrea Camilleri. Una storia, pp. 288, euro 18). «Da lì in poi, sceglierà di non dare voce ai mafiosi. Era convinto che farne i protagonisti, anche spregevoli, di un romanzo significasse nobilitarli». Crovi parte da qui per tracciare un ritratto di «un uomo che è stato così tante cose che si fa fatica a immaginarle dentro una persona sola».Per raccontarlo lei si concentra solo sui primi sessant’anni: perché?«Sono quelli in cui la sua vita è un vero romanzo. Dopo, grazie al rapporto coi lettori, diventa un personaggio di cui conosciamo quasi tutto».Partiamo dall’inizio allora: all’anagrafe era Andrea Calogero. Nei libri, però, il secondo nome sparirà.«Nacque proprio nel giorno della festa di San Calogero: i suoi genitori avevano perso due figli, così la madre per riconoscenza lo fece esporre dal balcone durante il passaggio della processione. E lui, in tutte le case in cui abiterà, ne conserverà sempre un’immagine votiva».Imparò a leggere grazie a sua nonna Elvira.«Fu la prima a raccontargli delle storie, facendogli conoscere il romanzo che scatenò la sua fantasia: Alice nel paese delle meraviglie».La nonna sarebbe morta molti anni dopo a Roma, dopo un’incredibile giornata.«Non era mai uscita dalla Sicilia, ma a 90 anni chiese ad Andrea di incontrare Papa Giovanni XXIII. Camilleri, che si era già trasferito nella capitale, riuscì ad accontentarla. All’udienza, lei però si presentò in ritardo. Rimase in piedi, così il Papa intimò ai presenti di trovare una sedia a quell’anziana signora, altrimenti – disse – lui stesso le avrebbe lasciato il posto. Finito l’incontro, Elvira volle girare la città. Morì poche ore dopo, dicendo: “Tutto ciò è di una bellezza insopportabile"».Fu proprio lei, peraltro, a trasmettere al nipote l’amore per il dialetto.«Quella fascinazione proseguì negli anni, nonostante il divieto di parlare siciliano imposto nel collegio che Andrea frequentò da studente. Lui, per eluderlo, si inventò un trucco: usava parole come giara e sfasciare che sembravano siciliane ma erano italiane».Sembra l’anteprima del pastiche linguistico che diventerà la sua impronta narrativa.«In questo contò molto anche ciò che gli disse il padre prima di morire: dopo aver sentito la storia del Corso delle cose, il suo primo romanzo, gli chiese di scriverlo nello stesso modo in cui glielo aveva raccontato. Mischiando, cioè, siciliano e italiano».Anni dopo però, come lei ricorda, Sciascia l’avrebbe messo in guardia sull’uso del dialetto.«"Stai attento – lo avvertì dopo aver letto il secondo romanzo, Un filo di fumo – se eccedi nel siciliano togli comprensione"».Non aveva poi così ragione.«E infatti lui lo ascoltò solo in parte».Il suo legame con Sciascia?«Di stima e amicizia. Iniziarono a frequentarsi per l’adattamento di un suo racconto, Western di cose nostre, da cui Camilleri ricavò uno sceneggiato in due puntate, quando lavorava in Rai come delegato di produzione. Conoscendosi meglio, Andrea scoprì anche un lato gourmand di Sciascia».Amava cucinare?«Alla fine di un pranzo a Racalmuto, Camilleri si congratulò con la moglie di Leonardo per l’ottimo cibo. Lei, imbarazzata, lo prese da parte sussurandogli: “Ha cucinato lui, ma non vuole che si dica"».Sarà Sciascia a favorire l’incontro con Elvira Sellerio, con cui esplose editorialmente negli anni Novanta. Come visse quel successo?«Benissimo, la maturità gli aveva tolto qualsiasi ansia da prestazione. Si dedicò solo al rapporto col pubblico; del resto, è sempre stato un cantastorie: la sua prima esigenza era raccontare, solo dopo si poneva il problema di come trascrivere su carta».I suoi modelli?«Oltre a Sciascia, certamente Pirandello, che da piccolo conobbe e di cui era lontano parente. Ma per la scrittura imparò anche dalla sua esperienza di regista teatrale e di produttore tv».Lavorò, tra gli altri, agli sceneggiati sui Maigret di Simenon recitati da Gino Cervi.«Lì collaborò con un grande drammaturgo, Diego Fabbri, che aveva un metodo assai originale: comprava dieci copie del romanzo da cui era tratto il film, li scollava pagina per pagina, identificava i filoni e li rimontava seguendo la logica televisiva. Quella tecnica, Camilleri l’avrebbe usata anche per Montalbano».Che rapporto aveva con il suo commissario?«Per lui è stato innanzitutto una forma di comunicazione universale: il giallo da una parte, la Sicilia dall’altra, la commedia dall’altra ancora. Dopo un po’, però, diventò una gabbia narrativa dalla quale cercò gradualmente di liberarsi».Non fece mai mistero di tenere di più ai romanzi storici.«Il re di Girgenti era quello a cui era maggiormente legato: se tra dieci anni lo vedesse di nuovo in classifica, si farebbe una gran risata».Accadrà?«È successo a Simenon, perché non potrebbe capitare anche a lui?». —