Corriere della Sera, 25 agosto 2025
La ricetta di Nora Ephron: tanta vita, amore e New York
«Ricordati Nora, tutto è ispirazione». Phoebe Ephron, sceneggiatrice di Hollywood semialcolizzata, lo bisbigliò alla figlia dal letto di morte. Questa frase sarebbe diventata la regola dell’approccio di Nora al racconto. Consacrandola come la regina incontrastata di quella leggerezza grazie alla quale ci ha salvato la vita tantissime volte. Non solo per essere stata la sceneggiatrice di alcune delle più belle commedie cinematografiche degli ultimi anni (Harry ti presento Sally, Insonnia d’amore, C’è posta per te, Julie e Julia…), ma anche per aver ridisegnato i confini del romanticismo moderno, che poi sta tutto in quella domanda: «Ma uomini e donne potranno mai essere amici?».
Feltrinelli ha da poco ripubblicato quello che tutti considerano il suo capolavoro letterario, Affari di cuore, assieme a un’altra raccolta di racconti su malattia e invecchiamento (Nora è morta di leucemia il 26 giugno 2012), Non mi ricordo niente (menzione speciale alle cover pop affidate alla talentuosa Olimpia Zagnoli). Quando Affari di cuore (che nasce come romanzo autobiografico, scritto in occasione del divorzio dal secondo marito, il giornalista premio Pulitzer Carl Bernstein, che per il «Washington Post» rivelò, con Bob Woodward, lo scandalo Watergate) è stato pubblicato per la prima volta in Italia da Longanesi, nel 1985, aveva un titolo orrendo, Bruciacuore, e non piacque granché. Quando invece fu messo come allegato alla rivista femminile «Noi», molto in voga negli anni Ottanta, anche se il nome dell’autrice era seminascosto colpì l’opinione pubblica, soprattutto quella femminile. «Tutta la letteratura è pettegolezzo», diceva Truman Capote con la nonchalance che ci si permette quando sono gli altri ad essere il bersaglio dei pettegolezzi. Nora di questo ha fatto un’arte, svelandoci l’attraente morbosità del «personale», ha riscritto con distacco ironico e spietato la propria storia «copiandola» dalla propria vita: New York, il femminismo, le dinamiche di coppia, l’ebraismo. E il cibo, straordinario veicolo di racconto della vita quotidiana e amorosa. Ogni passaggio prevede una ricetta: dalla torta al limone che Nora/Rachel tirerà in faccia al marito dopo averne scoperto i tradimenti al conforto ricevuto dalle mandorle tostate dopo aver scoperto una bugia coniugale. Dal sollievo di ritrovare l’acetosella della New York cosmopolita che era stata costretta ad abbandonare per Washington alla malinconia per i tempi in cui, all’inizio di una relazione, ci si dispone volentieri a passare delle ore a preparare le patate croccanti prima di cedere alla tentazione di fare solo patate lesse. Cucinando le ricette i lettori percepiscono la stessa confortevole malinconia che è poi la promessa del libro dal quale fu tratto nel 1986 un film, Heartburn (in Italia, appunto, uscito nelle sale come Affari di cuore), per la regia di Mike Nichols, con Jack Nicholson e Meryl Streep. Piccola nota a margine: con il ricavato Ephron ha sempre raccontato orgogliosa di essersi comprata il suo costoso appartamento nell’Apthorp, l’edificio di cui era pazzamente innamorata sin dal suo arrivo nella Grande Mela.
Rileggere oggi Nora Ephron è però anche un modo per cercare di restituirle l’importanza che ha avuto per tanti autori contemporanei, da Nathan Englander a Lena Dunham. Eppure difficilmente viene ricordata come una scrittrice a tutto tondo, sebbene alcuni dei suoi lavori abbiano raggiunto un pubblico straordinariamente ampio: articoli, sceneggiature, racconti e saggi sono letteralmente ovunque. È forse proprio quell’innata leggerezza con la quale ha affrontato tutto – dal divorzio alla malattia, dalle lotte femministe alle cene memorabili – ad averla messa ai margini del gotha letterario facendo derubricare il suo Affari di cuore a romanzo da donne. Verrebbe da ribattere: cosa hanno fatto nella loro carriera Philip Roth, Norman Mailer e Paul Auster se non pescare nelle loro vite, travestirle appena e metterle su pagina? Ma a Ephron forse non si è mai perdonata la sua capacità di planare sulle cose dell’esistenza. Ridendone, spesso, a crepapelle: dall’essere cresciuta senza un seno prorompente (memorabile un suo pezzo del ’72 su «Esquire») alla recensione del primo film porno della storia (Gola profonda, 1972); dal racconto dei kit fai-da-te per abortire nel pezzo Vaginal Politics alla critica degli eccessi del movimento femminista. Fino alla sua malattia che affronta proprio in Non mi ricordo niente, uscito nel 2011. Sarà il suo testamento spirituale, tra lode al burro, odio per i panel sulle donne del cinema e una lista delle cose che le sarebbero mancate una volta morta. Tra queste, ma ci potevamo scommettere, una torta.