Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  agosto 25 Lunedì calendario

Il secolo di Leopoldo Pirelli: è l’etica a sostenere la missione di un imprenditore


Un imprenditore, tra i più lungimiranti della sua generazione. Un uomo probo, come si sarebbe detto in passato, sensibile ai temi sociali e culturali e dotato d’un grande senso di responsabilità, verso l’azienda che guidava e verso le istituzioni del Paese. Sono tutte qualità essenziali, per ricordare Leopoldo Pirelli, a cent’anni dalla nascita, 27 agosto 1925. Non dimenticando la sua passione per il mare, che ha rafforzato la mia.
Di lui ho apprezzato la riflessione, la costruzione paziente, l’attenzione ai valori che guidano ogni buon imprenditore. Insieme abbiamo vissuto un rapporto talvolta complesso, ma sempre fondato su una solida base di stima e fiducia reciproca.
È lunga, la storia Pirelli, oltre un secolo e mezzo, dal gennaio 1872 in cui Giovanni Battista Pirelli avviò a Milano una produzione industriale, la lavorazione del caucciù, che ancora nessuno faceva in Italia. Leopoldo, terza generazione, prese in mano le redini dell’azienda a metà degli anni Cinquanta, affiancando inizialmente il padre Alberto, e poi andando avanti nei tempi del boom economico, nella stagione dei conflitti sindacali e sociali, negli Ottanta del rilancio dell’industria italiana, in Europa e nel mondo. Momenti di successi. Ma anche di crisi. Non è mai lineare, d’altronde, l’andamento dell’economia. Resta costante, semmai, per la Pirelli, l’impegno per la crescita, l’innovazione, la qualità, il radicamento sui mercati globali.
La Pirelli, vista da fuori, prima che vi investissi insieme alla mia famiglia e vi entrassi a lavorare, nel 1986, rappresentava per me la sintesi di quanto mio padre mi aveva insegnato sul fare impresa: «Uomini e donne affidabili, prodotto di eccellenza, priorità assoluta per l’attenzione alle persone, alla loro qualità, alla loro sicurezza fisica e anche economica e familiare».
L’altro aspetto che mi affascinava era la proiezione internazionale. Venivo da un’esperienza nel campo marittimo ed ero attratto dall’idea di uno sviluppo globale, che si coniuga con un’attenzione particolare al quadro geopolitico. La Pirelli aveva attraversato due guerre mondiali ed era riuscita nel 1939 a spostare il governo delle attività estere a Basilea, garantendo così la neutralità nella gestione delle società del gruppo nel mondo. Una lezione che è ancora oggi patrimonio aziendale.
Ma la ragione che più mi spinse a investire ulteriormente in Pirelli fu proprio la frequentazione di Leopoldo, grazie a Cecilia, la madre dei miei figli. In estrema sintesi, avevo avuto la fortuna di conoscere un signore particolare, ricco di qualità radicate nell’illuminismo lombardo e che si sono sempre tradotte in una profonda etica del lavoro e dell’impegno culturale e civile. E il rapporto di famiglia e di lavoro aveva creato tra noi un fondo di affetto, penso proprio reciproco, per cui stima e fiducia, alla fine, si rafforzarono.
Leopoldo aveva colto nel dopoguerra la necessità di crescere soprattutto nei pneumatici (Pirelli era la più piccola tra le grandi). I progetti non andarono però a buon fine. Leopoldo se ne assunse la piena responsabilità, anche se oggi, riguardando la storia, vale la pena dire che ci fu chi non rispose in modo adeguato alla delega, alla fiducia che gli erano state date. Rimasero al suo fianco l’ingegner Filiberto Pittini, che rientrò in azienda lasciando la quiete della pensione nel momento più difficile, Piero Sierra e Vincenzo Sozzani, un vero galantuomo, di cui ho avuto la fortuna di essere allievo nel periodo di sviluppo di Caboto all’interno di Pirelli&C. E, naturalmente, l’efficiente e affidabile assistente Claudia Ferrario. Mi fa piacere condividere, qui, anche un ricordo di Alberto Pirelli, tratto dal libro Leopoldo Pirelli. Passioni e valori di un uomo d’impresa (pubblicato da Archinto nel 2012): «Le caratteristiche che hanno guidato il senso di responsabilità civile e politica di mio padre sono state l’onestà intellettuale e la grande umanità, l’essere intelligente con equilibrio di giudizio e senso di giustizia sociale».
L’impresa è una comunità dai cui valori dipende anche il risultato
Di quei valori forti, ancora oggi patrimonio della nostra cultura aziendale, Alberto Pirelli cita come testimonianza esemplare le «Dieci regole del buon imprenditore», raccontate in pubblico, da suo padre, durante la consegna di un premio del Collegio degli Ingegneri milanesi, nell’ottobre 1986. Si parte dal ruolo della libera impresa privata come «pilastro di libertà e democrazia» e «mezzo insostituibile di progresso sociale» e si continua parlando di doveri verso gli azionisti ma soprattutto verso tutti i dipendenti e le comunità in cui opera l’impresa. Ricorrono i termini «onestà» e «ineccepibile moralità». L’impresa viene considerata come comunità, dai cui valori dipende anche il risultato economico dell’impresa stessa. E vanno dunque privilegiate relazioni industriali «non conflittuali» ma «collaborative».
Le ultime due «regole» che, secondo Alberto Pirelli, danno la misura del modo in cui suo padre viveva l’impresa e il suo ruolo di guida riguardano il riconoscimento dei «meriti collettivi» della squadra di guida e la necessità di «chiudere dei buoni bilanci. Se non ci riesce una volta, riprovare. Se non ci riesce più volte, andarsene. E se ci riesce, non credersi un padreterno, ma semplicemente uno che ha fatto il suo dovere». Da allora sono cambiati profondamente tempi, tecnologie, organizzazione del lavoro, dinamiche dei mercati. Si sono acuiti i conflitti geopolitici e sociali. E si sono aperti nuovi orizzonti, talvolta problematici, ma sempre affascinanti.
Sappiamo d’avere non solo il dovere, ma anche il piacere di andare avanti, seguendo il corso dell’innovazione e di quei valori che, ben saldi nell’esperienza Pirelli, da qualche tempo definiamo come «sostenibilità», ambientale, sociale ed economica, secondo una «cultura politecnica» che si qualifica come sintesi di saperi umanistici e conoscenze scientifiche e tecnologiche.
La consapevolezza della storia ci fa da guida. E la memoria, delle persone e degli avvenimenti, non ha sapore di nostalgia. È, semmai, un asset fondamentale della competitività: una caratteristica della passione per un migliore futuro.
Ancora una volta, il nostro sguardo intraprendente e responsabile, è rivolto alle nuove generazioni.