La Stampa, 23 agosto 2025
Intervista a Claudia Endrigo
Sono passati 20 anni da quando, il 7 settembre 2005, moriva Sergio Endrigo, uno dei grandi della canzone d’autore degli Anni 60 e 70. Avvenne quasi in sordina: negli ultimi anni quasi dimenticato, se si esclude nel 2001 l’omaggio speciale del Club Tenco che lo celebra con tre serate speciali e le sue canzoni interpretate dai big, dagli Almamegretta a Roberto Vecchioni. Eppure, con le sue melodie (indimenticabili) aveva segnato la storia della canzone italiana nel passaggio dai melodici ai cantautori (lui, Paoli, Bindi, De Andrè, Tenco). Nel 1968 aveva vinto Sanremo con Canzone per te e comunque dominato altre edizioni, con hit quali Adesso sì, Lontano dagli occhi, L’arca di Noè. E sue erano Io che amo solo te, Mani bucate, Maddalena, che hanno superato indenni le generazioni.
Poeta e musicista, fu anche attore (un paio di musicarelli d’obbligo ai tempi e il drammatico Tutte le domeniche mattina, tv movie per il Secondo Canale Rai, oggi free su YouTube), interprete di fotoromanzi (uno, La storia vera di Sergio Endrigo, nel 1964, mix di foto e disegni, per Bolero) e scrittore. Fu autore di un quasi noir dalle venature autobiografiche, Quanto mi dai se mi sparo?, che ora Baldini+Castoldi riedita e manda in libreria insieme alla ristampa di Sergio Endrigo, mio padre. Artista gentiluomo (con prefazione di Francesco De Gregori) in cui la figlia Claudia racconta l’uomo e l’artista, dall’infanzia a Pola, nell’Istria all’ultima apparizione in pubblico al Sanremo 2005, conduzione Bonolis. 60 anni, scrittrice dop anni passati in Rai (a dicembre La Nave di Teseo pubblicherà il suo primo romanzo e su un secondo è già al lavoro), Claudia Endrigo è da quel 2005 che si batte per tenere viva la memoria del padre.
Questo anniversario, sarà l’occasione giusta?
«La speranza è l’ultima a morire. Diciamo che, finora, ci sono pochi segnali in questo senso. Sono anni che mi impegno con tutta me stessa su questo fronte... Ma con scarse fortune. Anche la mia biografia è stata sfortunata: venne pubblicata in pieno Covid».
Perché lo definivano il «cantante triste»?
«Forse per la naturale malinconia dello sguardo, eppure nel suo repertorio ci sono anche divertenti filastrocche, come La casa o Ci vuole un fiore. E poi era un inveterato barzellettiere, lo dimostra il libro del 2006 L’Endrigo allegro. Le barzellette agrodolci di Sergio Endrigo. Certo triste lo è stato quando, dopo gli anni d’oro, si sentì trascurato, i dischi poco sostenuti, i concerti malamente promozionati. Anche la salute lo aveva tradito: l’acufene gli rendeva quasi impossibile esibirsi. Poi lo avrebbe indebolito un’ischemia. Fu stroncato in pochi mesi, a 72 anni, da un tumore ai polmoni».
Come mai secondo lei fu messo da parte?
«Mai trovata una risposta convincente. Il pubblico lo adora, tanti colleghi lo ricordano e lo omaggiano, ci sono Paesi come il Brasile dove è ancora una star. La sua biografia avrebbe dovuto essere il mio ultimo tentativo: è inutile combattere contro i mulini a vento. Eppure, eccomi qui... A sperare che gli dedichino una fiction (gli anni giovanili sono quasi romanzeschi) o che dal romanzo – divertente, intrigante e con un finale a sorpresa – traggano un film...».
E invece?
«Endrigo non pervenuto. Tuttavia già l’uscita del romanzo è una bella cosa e un po’ mi consola».
Poco diplomatico?
«Timidissimo e schivo, non era incline alla promozione. Tra una serata tv e una battuta di pesca subacquea, non aveva dubbi: sceglieva la seconda. Nel 1975 lasciò Rca perché volevano abbinarlo a un’interprete che lui non gradiva, Lola Falana, mentre lui pensava a Enzo Jannacci o Giorgio Gaber».
Che tipo era?
«Un vero gentiluomo d’altri tempi, buono e giusto. Me lo hanno ripetuto un po’ tutti quelli che ho interpellato per ricostruire momenti della sua vita che non conoscevo».
Il romanzo parla di un cantante un tempo famoso sul viale del tramonto: è autobiografico?
«Piuttosto una proiezione. Il protagonista ha la sua stanchezza, il sentirsi responsabile delle persone e contemporaneamente aver voglia di sparire, il rapporto con mamma. Il titolo e il tono del romanzo sono provocatori. E la copertina coerente, con papà in una posa ironica e sorridente, scelta anche per sfatarne l’immagine triste».
Uscì nel 1995, lei ormai era adulta: cosa ne sapeva?
«Vivevo per conto mio e lui, come sempre, fu molto discreto. Però ricordo che non me ne stupii più di tanto: era un uomo dai molti talenti. Anche attore: in Tutte le domeniche mattina dimostrò di essere un bravissimo interprete. Dopo aver rifiutato i soliti musicarelli, accettò per amicizia verso il regista ma soprattutto perché era una storia di emigrazione, che molto gli aveva ricordato la sua condizione di esule istriano»
Che ricordi ha di suo padre?
«Ci sono stati momenti indimenticabili: ho avuto un’infanzia felice e libera, piena di animali e a stretto contatto con la natura. Tra i 7 e i 10 anni il luogo che più mi lega a papà è la casa di Pantelleria, dove avevamo un dammuso sul mare: lui che va a pesca, che gioca a carte con gli amici. Più avanti le vacanze in barca insieme. E poi nella vita di tutti i giorni, la grande casa di Casali di Mentana, “La Metafisica”, dove avevamo per vicini i Bardotti, i Bacalov e i Morricone, con noi bambini sempre insieme. Poi però poco per volta gli altri se ne sono andati e siamo rimasti solo noi: ricordo l’insofferenza per quella casa lontana da Roma. Sono stata ben felice quando ci siamo trasferiti in città: la mia vita era lì, la scuola, gli amici, i locali alla sera. Il primo anno soprattutto ho avuto la classica fase del “questa casa non è un albergo"».
A Bacalov suo padre fece causa per plagio: disse che la canzone premio Oscar per Il postino era sua. Ma non erano amici?
«Con Luis non c’era l’amicizia profonda che lo legava a Sergio Bardotti. Bacalov è amico solo di sé stesso. Aveva arrangiato molte sue canzoni. Le mie notti, la canzone in causa, era nel primo album in cui non avevano lavorato insieme. Papà gliel’avrà certamente fatta sentire, a Luis sarà rimasta in mente, non so. Fu un giornalista a dirlo a papà. Che cercò Bacalov. Non si vedevano da anni. Forse sarebbe bastato poco perché la cosa si risolvesse, e invece quando si incontrarono Luis fece l’"amicone”, un atteggiamento per tornaconto che inviperì mio padre. Gli fece causa ma soffrì tantissimo. Si trascinò per 18 anni e papà non ne vide mai la fine. Si concluse con una transazione che non mi soddisfa: fu un accordo miserissimo che fui costretta a firmare (ma non ne potevo più, né mi potevo più permettere le spese legali) ma certamente – sia chiaro – non una vittoria per lui. Bacalov non ha mai vinto nessun Oscar. Moralmente è di mio padre». —