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 2025  agosto 24 Domenica calendario

Intervista a Laura Paolucci

Ha letto tra i primi le bozze di Gomorra, ha prodotto Sorrentino prima che diventasse Sorrentino, ha scoperto Matteo Garrone, ha scritto la sceneggiatura de L’amica geniale,lavorando mica tanto a distanza con la misteriosa Elena Ferrante.
Eppure di Laura Paolucci si sa molto poco, anche perché lei preferisce così. Con Domenico Procacci è l’anima di Fandango, casa di produzione e distribuzione cinematografica (e non solo, è anche casa editrice) che porta alla mostra del cinema di Venezia, tra gli altri,La valle dei sorrisi di Paolo Strippoli eCome ti muovi, sbagli di Gianni Di Gregorio. Sceneggiatrice, rabdomante di storie, editrice, Laura Paolucci racconta il mestiere delle parole fatto di frasi a incastro e capoversi imprevedibili. E di fatica.
Anche per lei, l’ispirazione non esiste?
«Esiste il lavoro. Montare, smontare, scalettare, rifare fino alla nausea. Il bello di scrivere per il cinema è che lo si fa insieme, come una squadra sportiva».
Dove ha imparato?
«Alla Scuola Holden, ormai mille anni fa… Mi iscrissi al primo corso in assoluto, senza sapere niente di cinema. Tutti volevano diventare romanzieri, io fui catturata da altro. Lo capì Alessandro Baricco, che mi mandò a fare fotocopie da Fandango. Uno stage senza conoscere nessuno. Non è vero che fanno carriera solo i raccomandati».
Com’era il giovane Baricco, a parte le maniche arrotolate in tivù?
«Ci costringeva a leggere col metronomo, a cantare l’opera, a passare dal fumetto al cinema, dall’editing al racconto orale. Io sono timida e scappavo in bagno. Non servì, per fortuna.
Alessandro aveva ben presente che la parola è fatta di tanti fiumi, torrenti e ruscelli e non scorre mai da una parte sola».
E il giovane Paolo Sorrentino com’era?
«Già così. La sua classe era evidentissima, bastava leggere la prima sceneggiatura».
Ha lavorato anche con Nanni Moretti in “Caos calmo”. Com’è andata?
«Con Nanni, che mi ha insegnato tanto, niente trucchi di scrittura e sceneggiatura, e sempre molto impegno e precisione».
Lei arriva dalla Rimini di Fellini e fa cinema. Non originalissimo.
«Per noi riminesi, Amarcord era una cosa normale, era la nostra vita. Ne ho preso coscienza dopo».
Cos’è la sceneggiatura?
«Per fortuna non viene più considerata scrittura di serie B, com’è stato per molto tempo. Possiede il fascino della narrazione per immagini: storia, tema, soggetto, scalette, condivisioni. Bellissimo».
C’era questo ragazzo che vi aveva portato uno strano saggio, si chiamava Roberto Saviano.
«Venne a Fandango con le bozze di
Gomorra, io sono stata tra i primi a leggerle. Poi, il romanzo lo pubblicarono altri perché l’editoria funziona così, ma con Procacci capimmo che dentro la potenza di quel testo c’era un film, così presentammo subito l’offerta per i diritti. Siamo stati bravi e fortunati. Il resto l’ha fatto Matteo Garrone, un altro che era già un fenomeno prima di diventarlo. Con Saviano siamo rimasti amici per la vita».
Anche con Elena Ferrante?
«Ovviamente non ho mai ascoltato la sua voce fisica, mi basta quella letteraria, e ovviamente non so chi sia: anagrafe e identità sono due cose ben diverse. Tutta questa morbosa curiosità sul suo vero nome e cognome non mi è mai piaciuta, perché abbassa una fantastica avventura narrativa».
Non le pare che “L’amica geniale” sia già nata sulla pagina come una serie?
«Sì, però all’inizio veniva considerata letteratura femminile, che stupidaggine. Mi chiedo a che punto della tetralogia Elena Ferrante abbia deciso il destino dei suoi personaggi».
Com’è, lavorare con lei?
«Le mandiamo i testi, riceviamo risposte e note molto accurate, a volte vere e proprie riscritture. C’è grande intesa tra noi e lei, e per noi intendo anche gli altri sceneggiatori, cioè Francesco Piccolo e Saverio Costanzo».
Le feste di Fandango sono proverbiali. Ci racconta di quella volta di Ligabue e delle piadine in spiaggia?
«Avevamo presentato a Cannes il suo filmDa zero a dieci,e la serafesteggiammo in riva al mare con lui che cantava e con le “azdore” emiliane, coloro che nella tradizione reggono la casa, a tirare le piadine per produttori cinematografici di mezzo mondo, che si divertivano come matti. E quanto mangiavano».
In casa editrice siete molto attenti allo sguardo femminile.
«Mai ragionato per quote rosa, ma per capacità. Molte delle nostre autrici e registe sono davvero interessanti».
Lei, di quali libri si è nutrita da piccola?
«Le Fiabe Sonore della Fabbri erano già sceneggiature: didascalie, immagini, parole e suoni. Forse, il mio mestiere era tutto lì dentro. “A mille ce n’è…”: i boomer sanno cosa intendo».
Per il grande pubblico, la parola “produttore” evoca soprattutto il denaro che serve per fare un film.
Tutto qui?
«Il produttore è un editore.
Domenico Procacci mi ha insegnato che non si fanno film in cui non si crede. A Fandango non saremmo mai capaci di girare una pellicola di Natale, e se ci provassimo verrebbe malissimo. Comunque, con gli anni ho imparato ad essere più a mio agio con banche, conti e sponsor, anche se naturalmente la produzione cinematografica è molto di più».
C’è un vostro film al quale è particolarmente legata?
«DireiDiaz di Daniele Vicari, sui fatti di Genova. Perché non smette di dire le cose che ha da dire, parla ai giovani e sta invecchiando benissimo».
L’intelligenza artificiale scrive anche sceneggiature?
«Ho appena visto un sofisticato cortometraggio, molto bello, scritto proprio così. Si sta aprendo qualcosa di incredibile, anche se non ho ancora deciso se voglio vivere abbastanza a lungo per poterne godere i frutti, oppure se preferisco ritirarmi a coltivare l’orto».
Laura Paolucci: perché le donne leggono libri, scrivono e vedono film più degli uomini, e molto spesso lo fanno meglio?
«Perché da bambine ci leggevano le favole».