Corriere della Sera, 24 agosto 2025
Biografia a Patrizio Roversi
Buio pesto.
«Mustang, regione del Nepal. Bivacco senza luce. Notte fonda. Mi scappa la pipì, esco dalla tenda e a tentoni faccio una trentina di passi. Comincio a liberarmi. Però mi sembra che il getto produca un suono strano, attutito, come se la stessi facendo su un tappeto».
Non proprio.
«Ad un tratto sento un ringhio mostruoso davanti a me. Era un mastino tibetano, alto un metro e mezzo. E io lo stavo innaffiando. Terrorizzato, col cosino in mano, senza potere arrestare lo zampillo, arretro piano senza respirare e dopo secondi interminabili trovo rifugio nella tenda». Ricordo di viaggio di Patrizio Roversi, 71 anni, attore e conduttore tv, ai tempi avventurosi di Turisti per caso, trasmissione cult (dal 1991 al 2006 su Raitre) in duo – lavorativo e allora anche sentimentale – con Syusy Blady, ovvero Maurizia Giusti.
Non fu l’unico brivido sulle pendici dell’Himalaya.
«Per arrivare a Lo Manthang ci vogliono otto giorni di cammino lungo una mulattiera larga 20 centimetri. Si può fare a piedi o a dorso di cavallini bassi e magri. Quando il mio cominciò a trotterellare a filo del precipizio di duemila metri, mi arresi. “Scusate, io scendo eh”».
Un ragazzo di campagna.
«Nato a Mantova, andavo spesso dai nonni a Pegognaga, oltre il Po. Babbo, zio e nonno erano impiegati al consorzio di bonifica, io li accompagnavo per canali a fare i rilievi, provavo grande attrazione per il profumo delle stalle e del letame».
Al Dams di Bologna.
«Già alle scuole medie avevo frequentato i corsi di Giuliano Parenti, papà di Davide, drammaturgo e intellettuale, mio primo maestro. Al Dams eravamo pochi, alle lezioni di regia di Squarzina in sette. Feci pure un corso di clown, che mi insegnò il senso della dignità del teatrante».
Il circolo Arci di via «Cesare Pavese» al Pratello.
«Fondato dai partigiani, c’era la sede del Pci ma pure quella del Psi, i cacciatori lasciavano le chiavi della sala riunioni agli animalisti, tutti quelli che migravano a Bologna passavano di lì. Era un luogo di apertura socio-culturale meravigliosa. Il direttivo del circolo ci concesse due serate. Proponevamo un varietà con dentro di tutto, dai dibattiti tra intellettuali all’incontro di pugilato, comici, cantanti. Un successo strepitoso, fuori c’era la fila, ci diedero due serate extra, togliendole al liscio, il pezzo forte del programma».
E una sera...
«Dopo quattro anni di tirocinio culturale e umano, un gruppo di amici cineasti ci portò Giovanni Minoli. Che in incognito tornò una seconda sera e una terza. Ci disse: “Venite da me a Mixer, ho bisogno di un momento di alleggerimento”. Pensavo scherzasse, lo penso sempre».
Invece no.
«Dopo ci fece fare Gran Paese Varietà, nello show di Funari della domenica pomeriggio, registrato nel mitico Studio Uno. La Syusy indossava i costumi della Carrà, io le giacche di Pippo Baudo, mi stavano lunghe. Minoli ebbe coraggio, a mandarci in onda. Era tutto molto surreale. Intervistammo Mina, che però non c’era. Per Claudio Villa disegnammo a terra una rotaia e cantò Binario, con intorno noi vestiti da asini».
Primo incontro con Syusy.
«Avevo 18 anni. Alla colonia estiva della provincia di Bologna, lei curava il cinema per i bambini, io il teatro. Ci siamo messi insieme nel 1973 al corso di clown. Syusy era la prima della classe, io fui bocciato. Fallii la prova della maschera neutra, la maestra scoprì che sotto ridevo».
Compagni di palco, di avventure e di vita: sposati nel 1981 e insieme fino al 2002.
«Professionalmente siamo tuttora soci, produciamo documentari. Le vie affettive invece a un certo punto si sono divise, abbiamo divorziato».
Cos’è che non ha più funzionato?
«In queste cose non c’è un momento preciso, ma un allentamento graduale del rapporto. Per anni abbiamo vissuto in due case separate, una sopra e l’altra sotto, per nostra figlia Zoe. Poi lei è cresciuta e ci siamo allontanati. Lei ha un compagno, io sto con Mietta Corli, regista di lirica».
Sempre amici.
«Non è stato semplice, il processo di separazione è più o meno sanguinoso, complicato, ci sono gelosie. Però l’abbiamo superato».
Il successo arrivò con «Lupo Solitario», 1987, Italia 1. Ma durò due mesi.
«Volavamo nei cieli di Milano su un dirigibile, eravamo avanti di venti anni, forse troppo. L’autore era Davide Parenti, figlio del mio maestro Giuliano, con lui siamo come fratelli. Tra gli opinionisti c’era Wanna Marchi, la ricordo buffa, vitale».
E Moana Pozzi.
Su Mediaset
«Berlusconi non ci voleva, ma ormai il programma era fatto: ci spedì a notte fonda»
«Curava una rubrica letteraria, quasi completamente nuda. Dolcissima, carina, intelligente, una bellezza conturbante ancora di più quando era vestita».
Più altri strani figuri.
«Uno che girava con la sega elettrica, il finto carcerato, il cercatore di Ufo. Preparammo 30 puntate. Silvio Berlusconi vide la prima e ne fu inorridito. “Io questi qui sulle mie reti non li voglio”. “Presidente, ci sono già le registrazioni”. “Allora mandatele la sera tardi”».
Portava dei capelli a soufflé.
«Eh, erano i ruggenti anni Ottanta e nel cast c’era anche il parrucchiere Orea Malià».
Una particina con Fellini ne «La voce della luna».
«Facevo il figlio di Villaggio, dicevo una sola battuta. Fellini mi chiamava “Patrizino” e cambiava continuamente il copione, al doppiaggio diventò un’altra ancora. Però mi sono divertito molto, c’era pure Benigni, delizioso».
Curava la «Posta del Cuore» proprio sul giornale satirico «Cuore», con il soprannome di «Patatone».
«Non parlavo di sentimenti ma di politica, conservo un baule di lettere di insulti, i più gentili mi davano del “socialdemocratico”».
Per «Turisti per caso» quanti posti ha visitato?
«Mai messo le bandierine, non saprei. Ma calcoli almeno tre viaggi all’anno per dieci anni. Il nostro slogan era: “Se ce la facciamo noi, potete farlo tutti”».
La cosa più schifosa che ha mangiato?
«Oh beh, la vipera in Giappone, l’hanno fritta davanti a me. O la birra dei neri sudafricani, 30° di temperatura e 3 di volume in alcol».
Poi fu «Velisti per caso».
«Un giro del mondo di due anni e mezzo, io che soffrivo di mal di mare. Con spezzoni quasi in diretta, dal mezzo dell’oceano, grazie a parabole di un metro montate sulla barca. Oggi basterebbe un telefonino. Al largo di Gran Canaria un’onda anomala bagnò tutta l’attrezzatura».
Gaudente e goloso, come nonna Ida.
«Da cui però ho ereditato pure il diabete. Sono famelico, con il cibo ho un rapporto complicato, dovrei trattenermi, invece sono portato ad assaggiare tutto. In Sardegna, per raccontare la cucina locale, mangiai come un matto, il mattino dopo sono finito in ospedale con la pancreatite».
Tra altri libri, ha scritto pure «L’Atlante mondiale delle barzellette».
«La barzelletta è un’opera d’arte, un mini-romanzo, racconta di tutto».
La sua preferita?
«Una inglese. Cos’è quella cosa che entra ed esce, entra ed esce e fa felici due persone? La bustina del tè. Umorismo raffinatissimo».
Oggi che fa?
«Con Giuseppe Ghinami ho girato un documentario sul trattore operaio R60 che gli operai delle Officine Meccaniche Reggiane costruirono durante l’occupazione del 1950-51, per dimostrare che volevano riconvertirsi al civile dopo la guerra. Lo ha mandato in onda La7».
Non le piacerebbe riavere uno show?
«No. Magari altri racconti di viaggio. O un documentario sulle tante aree abbandonate che ci sono in Italia. Una trasmissione sull’agricoltura invece la farei volentieri».
Concorrente di Ballando?
«Mai».