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 2025  agosto 23 Sabato calendario

Intervista a Alexandr Sokurov

Nelle sue parole risuona un che di metafisico, di straniante, un refolo di destino ineluttabile, sull’eco della grande letteratura russa. Il taccuino del regista del russo Alexandr Sokurov, 74 anni, Leone d’oro nel 2011 per Faust, dura 5 ore.
Torna alla Mostra di Venezia col film più lungo. Un artista sempre in cerca, che non ha mai nascosto le sue critiche a Putin, e ha pagato con la censura. Sfogliando le pagine della Storia, non usa né attori né sceneggiatura, in un serrato confronto con la Storia, l’ennesimo per lui, che dice: «Guardatelo con cuore gentile». Dal 1957 al ’90, le immagini seguono il taccuino in cui ha annotato allusioni a eventi cruciali (fino al post Muro di Berlino) e personali connessioni interiori. C’è anche l’Italia del cinema: Loren, Visconti; Il silenzio di Bergman a Mosca fu definito «pornografia». A dominare, in unico flusso su immagini di repertorio, sono guerre, film e festival, calamità naturali; una fiaba allucinata dove il Male appare inestirpabile.
Sokurov, una provocazione intellettuale?
«È un film d’autore, non è un film sull’attualità, non è uno studio storico bensì una anti-elegia del ‘900. Quindi poteva essere fatto in qualsiasi modo, perfino come fiction. I politici aizzavano le civiltà e la gente, gli uni contro gli altri, non sanno fare diversamente, ma nessun evento è tale se manca l’uomo, e i suoi temi principali sono la vita e la morte».
Gli anni decisivi?
«Per la Russia potevano essere la perestroyka e Boris Eltsin. E i primi anni del 2000. Ma come spesso accade nella storia russa nulla si è avverato. C’è stato un tempo in cui potevo girare ciò che ritenevo importante e necessario, nel periodo sovietico erano stati sdoganati i miei film proibiti. Poi la cortina ha cominciato a calarsi, anche se avevo fatto in tempo ad avere accanto Rostropovich, Solgenicyn, Eltsin. La particolarità del monologo è nell’essere stato creato da un testimone, che a volte ha partecipato in modo diretto ai drammi».
Ma perché ha messo tante sciagure aeree?
«Per la vita sulla Terra l’uomo paga con la vita, per il progresso paga con la qualità della morte. Ecco, un aereo decolla… e precipita. Per avere l’aviazione l’umanità continua a pagare un prezzo orribile. Nessuno ha mai saputo fermarsi. E cosa c’è là, avanti? Soltanto la morte, non c’è altra scelta».
Lei è un personaggio scomodo e avversato in Russia.
«È molto difficile, per me, viverci. Forse non sono l’unico. Non posso tacere se non sono d’accordo con ciò che mi accade attorno, riguarda il destino della cultura russa e dei miei giovani compatrioti. Sono disperato per l’aggressività di milioni di persone. Ma la mia patria è la lingua russa».
Lei è nato e cresciuto sotto un regime totalitario, in una cittadina siberiana…
«…che non esiste più perché vi hanno costruito una centrale idroelettrica ed è stata sepolta, se volessi visitare il mio luogo natale dovrei prendere una barca e guardare il fondo del mare. Questo crea l’illusione che io viva in un mondo quasi antico, al di fuori delle leggi osservate dalle persone che mi circondano. Come se fossi rifiutato, ritenuto inutile. Forse per questo i dirigenti del mio paese mi trattano come se fossi un estraneo, un trovatello».
Un uomo in fuga da se stesso, come Sostakovic e la sua musica, una danza macabra che lei cita più volte. Entrambi non avete lasciato la Russia, malgrado tutto.
«In un certo senso, lui è parte di me. Le sue paure sono le mie paure, tutti i suoi scopi sono i miei. Ma io come autore sono in pace con me stesso. Sono stato formato solo dalla musica classica, dalla radio, in URSS».
Perché ha deciso di tenere un diario?
«È un’abitudine nata forse dalla mia formazione di base, la laurea in Storia. Constatando fatti e emozioni cerco di raggiungere una maggiore comprensione di ciò che accade e insegno a me stesso la razionalità».
È sperimentazione?
«Non cerco il nuovo ma di comprendere la particolarità del mestiere del regista. I miei film in Russia sono banditi e senza dubbio alcuno anche questo non uscirà».
Le immagini sono slegate dalle didascalie.
«Le metafore e lo straniamento poetico sono importanti. La parte visuale e quella narrativa non si scontrano: si amano a vicenda. Come nei pittori del Rinascimento italiano, i repertori sono allo stesso tempo dei fatti».
Crede più nella visione estetica o nell’etica?
«L’etica è più importante, come mi hanno insegnato grandi registi italiani artefici della costruzione morale del cinema in Europa, lievi come le ali degli angeli, divinamente armoniosi, sono i miei apostoli, non i nomino tutti perché ho paura che lassù si offendono se sbaglio l’ordine: Fellini… Quanto all’estetica, è come la politica: una volpe, sempre pronta a tradire a favore di chi offre cibo migliore. Il film è un albero, cosa cresce in quell’arbusto non lo sa nemmeno Dio».