Corriere della Sera, 23 agosto 2025
le rivincite (per ora) della Cina
Qualora si arrivi a un accordo in Ucraina, Putin fa sapere che nel futuro dispositivo di sicurezza vuole truppe cinesi. L’India, allarmata per i dazi minacciati da Trump, fa le prove di un disgelo con Xi Jinping. La più grossa società americana di microchip per intelligenza artificiale, Nvidia, ha supplicato la Casa Bianca di poter esportare in Cina e alla fine ha ottenuto il permesso, pagando una tassa del 15%. Sono tre segnali di una rinnovata centralità della Repubblica Popolare, gigante da 1,4 miliardi di abitanti, e seconda economia del pianeta. Nella partita commerciale è l’unico grande a non aver ancora raggiunto un accordo con gli Stati Uniti. È anche l’unico ad avere minacciato serie ritorsioni, con l’embargo sulle terre rare, un ricatto così efficace che Trump ha rinunciato ai superdazi, e di proroga in proroga le due superpotenze stanno ancora negoziando (l’ultima sospensione dei dazi da parte della Casa Bianca offre tre mesi di tempo).
Questo quadro dà l’impressione che la Cina sia al momento l’unico vincitore, in una partita complicata che ridisegna gli equilibri macroeconomici e geopolitici. Torna ad affacciarsi lo scenario di un «secolo cinese». In certe capitali europee, e nei ranghi dell’opposizione Usa, questo tipo di evoluzione viene letta come un meritato castigo per i misfatti del trumpismo.
S i tende a dimenticare che Xi parla di declino dell’Occidente dai tempi di Obama, e lo spiega con la debolezza delle liberaldemocrazie. L a Pax Americana verrebbe gradualmente sostituita da un altro ordine globale, con la Cina al centro, nuove gerarchie e nuove regole, ispirate al grande disegno della Belt and Road Initiative, quelle Vie della Seta del terzo millennio che avvolgono il pianeta in un reticolato di infrastrutture fisiche e digitali, un sistema in cui «tutte le strade portano a Pechino». Un ruolo speciale verrebbe svolto dai Brics, l’associazione dei Paesi emergenti nata un po’ per caso all’inizio del millennio e cresciuta per progressivi allargamenti fino a diventare una sorta di alternativa al G7. Anche la decisione di inseguire gli Stati Uniti sulla strada degli stablecoin, verso una moneta digitale della banca centrale, rientra nel progetto cinese di offrire un’alternativa alla centralità del dollaro. L’emergere di questo nuovo ordine era nei piani da tempo, era anche nella logica delle cose – visto il declino dell’Occidente almeno in termini relativi, come peso demografico ed economico – ma l’accelerazione finale l’ha data Trump con i suoi strappi verso il protezionismo, le azioni unilaterali, gli sgarbi agli alleati, il nazionalismo di America First.
L’ultimo numero della più autorevole rivista americana di geopolitica, «Foreign Affairs», contiene un’analisi che trasuda ammirazione per il progresso scientifico-tecnologico della Cina, addita a modello la sua strategia di politica industriale varata dieci anni fa da Xi Jinping («Made in China 2025»), esorta Washington a imparare come si costruiscono complessi eco-sistemi per accelerare l’innovazione e promuovere la leadership di interi settori industriali. Essendo espressione di un establishment globalista e anti-trumpiano, il pensiero dominante su «Foreign Affairs» è che la Cina rischia di essere il modello vincente perché Washington fa tutte le scelte sbagliate.
Il passaggio dalla centralità americana ad un mondo sinocentrico però non è scontato. Gli scenari troppo «perfetti» nascondono sempre qualche difetto. Una cautela generale dovremmo applicarla quando parliamo di potenze autoritarie: investono molte risorse nella propaganda e quindi ci appaiono invincibili perché così vogliono sembrare. Hanno stabilità perché è tipica di sistemi senza alternanza e senza pluralismo. La storia insegna che la loro solidità ci appare totale fino al momento in cui entra in crisi, di colpo e spesso senza un preavviso.
Nonostante l’opacità del regime, ne sappiamo abbastanza per dire che l’elenco dei punti deboli cinesi è lungo. Sul piano esterno, per cominciare. La Cina ha dei limiti enormi di soft power, più i paesi le sono vicini più sono allarmati dalla sua prepotenza militare: Giappone, Corea del Sud, Filippine, Vietnam, per non parlare di quella Taiwan che come «provincia ribelle» viene predestinata all’annessione con le buone o le cattive. L’India può cercare un disgelo a fini tattici per accrescere il proprio potere negoziale verso Trump, ma nei fatti considera la Cina come la rivale strategica più pericolosa; e la recente visita di Xi in Tibet ha ravvivato preoccupazioni antiche. A livello globale la Cina ha costruito una formidabile macchina da guerra per il dominio industriale del pianeta, la cui forza è l’altra faccia della sua debolezza: trainata dalle esportazioni, l’economia cinese è «condannata» a rovesciare eccedenze di produzione sui mercati altrui, con effetti distruttivi. Per questo non è mai decollata l’ipotesi di un’alleanza Ue-Cina contro i dazi di Trump, anzi nell’accordo fra Washington e Bruxelles ci sono delle chiare disposizioni anti-cinesi.
Ma è soprattutto all’interno della Repubblica Popolare che bisogna scrutare per ravvisare i problemi. Il miracolo della politica industriale di Pechino non è un inedito: ha copiato il modello del Giappone, poi emulato da altri dragoni asiatici, all’insegna del dirigismo statale, aiuti e sussidi pubblici, sovvenzioni all’export, protezionismo occulto e forme di autarchia. In Giappone fece faville per trent’anni e poi si schiantò, per tante ragioni a cominciare dal fatto che i pianificatori perfetti, onniscienti e onnipotenti, non appartengono a questo mondo. Sorvolo sui problemi più noti come declino demografico, crisi immobiliare, alta disoccupazione giovanile, bassa produttività nei settori tradizionali. Il tallone d’Achille più micidiale è politico. Xi deve preparare la sua successione, non ha un delfino designato. In passato, ai tempi di Mao Zedong e poi di Deng Xiaoping, la Cina comunista non seppe gestire queste successioni in modo pacifico, indolore, e senza ribaltamenti strategici traumatici. Questo include la politica estera.