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 2025  agosto 22 Venerdì calendario

Mediobanca e l’antica sfida tra Stato e mercato

Cominciamo col ricordare una ovvietà (ma a volte le ovvietà servono a stabilire punti fermi del ragionamento): in un’economia di mercato, in cui le principali aziende sono società per azioni quotate in una borsa valori, le sorti di un’azienda sono determinate dalla volontà della maggioranza dei soci, punto. Purché questa volontà venga espressa rispettando tutte le norme poste a tutela del corretto funzionamento del mercato.
Nell’assemblea di Mediobanca che si è tenuta ieri i soci non hanno approvato la proposta di lanciare un’offerta pubblica di scambio nei confronti di Banca Generali. L’amministratore delegato Nagel, in una nota rilasciata a caldo, ha espresso dubbi sul comportamento assembleare di alcuni soci (si riferiva evidentemente a Caltagirone). La questione potrebbe finire davanti a un giudice e ingrassare le parcelle dei legali coinvolti, ma non è tanto questo il punto che c’interessa qui, che è invece molto più generale e riguarda l’antichissima diatriba Stato-Mercato.
Per capirlo, dobbiamo chiedere al lettore la pazienza di rammentare gli intricati viluppi di questa vicenda. Il fulcro sono le Assicurazioni Generali (Ag). Due importanti soci di AG, il Gruppo Del Vecchio e Caltagirone S.p.a., sono da tempo oppositori dell’attuale gestione di quell’azienda. Ag da molti anni è governata da un consiglio espresso dall’azionista Mediobanca, che col suo 13% si è finora tirato dietro nelle assemblee di Ag il grosso degli altri soci, soprattutto investitori istituzionali. Ma Caltagirone e Del Vecchio (ora Milleri, che ne ha ereditato la missione) sono anche importanti azionisti di Mediobanca. Quando il risanato Monte dei Paschi di Siena ha lanciato la sua offerta pubblica di scambio su Mediobanca (il periodo di adesione scadrà l’8 settembre) essi si sono schierati con gli offerenti. Molti osservatori hanno anzi affacciato l’ipotesi che fossero loro gli ispiratori dell’offerta di Mps, con l’intento di impadronirsi indirettamente di Ag, il tutto con il coordinamento del governo. Quest’ultimo ancora possiede l’11% di Mps, ma ne ha appena ceduto importanti quote tra gli altri proprio al duo Caltagirone-Milleri. E perché il governo benedirebbe il tentativo di Mps? Per vicinanza politica a Caltagirone, dicono i più maligni; per la volontà di creare con la fusione Mps-Mediobanca una grande banca nazionale che possa sfidare il duopolio Intesa-UniCredit, dicono altri.
Allora l’attuale gestione di Mediobanca avrebbe tentato una specie di disperata mossa del cavallo: offro di acquisire Banca Generali, una banca posseduta al 51% da Ag (il resto essendo di fondi esteri e azionisti vari), dando in cambio proprio quel 13% di Ag, di cui a questo punto voglio liberarmi per togliere ai lupi che vogliono mangiarmi il boccone più ghiotto. Mossa fatta abortire dalla maggioranza degli azionisti di Mediobanca che si sono presentati ieri in assemblea, cioè di nuovo Caltagirone-Milleri più altri.
Questa storia ha le parvenze di un confronto fra privati su quale debba essere il modo migliore di amministrare aziende private. Se fosse veramente così varrebbe la massima aurea da cui ha preso le mosse questo articolo. Ma il governo starebbe giocando un ruolo e questo va discusso.
Uno Stato ha essenzialmente due modi per orientare l’offerta produttiva dell’economia: regolamentare/incentivare, da un lato; gestire direttamente, dall’altro. Quest’ultimo modo è tipico delle economie “di comando”, quelle socialiste/comuniste. In Italia dopo la seconda guerra mondiale si sperimentò per decenni un’economia “mista”, con molte aziende (fra cui quasi tutte le banche) gestite dal settore pubblico. Poi prevalse l’opinione, affermatasi in tutto l’Occidente, che lo Stato dovesse regolamentare ma non gestire, tutt’al più elargendo qualche sussidio purché automatico e orizzontale, non settoriale.
Questa opinione nel mondo si è negli ultimi anni affievolita. S’invocano politiche “industriali”, con governi che attivamente sospingano le aziende private verso comportamenti e obiettivi che meglio servano l’interesse collettivo. Il presupposto è che il mercato non riesca autonomamente a produrre i risultati ottimali, che occorra l’intervento dello Stato. In questa fase storica le parole d’ordine sono innovazione e dimensione. Nella finanza l’Europa soffre di un’acuta condizione di minorità rispetto ad altre aree del mondo, essenzialmente perché non riesce a dotarsi di un mercato finanziario e dei capitali veramente integrato, con aziende di dimensione continentale, che sappiano sfidare quelle americane, cinesi, giapponesi.
Ora, è questo il compito che il governo italiano si è dato? In particolare nella vicenda da cui stiamo prendendo le mosse? È lecito dubitarne. Almeno fintantoché non ne sapremo di più. Per il momento le ragioni di perplessità sono almeno due. La prima è che una eventuale fusione Mps-Mediobanca, che sarebbe appunto caldeggiata dal governo, mostra aspetti di incoerenza per le storie rispettive delle due banche. La seconda è che si darebbe vita a una banca certo più grande delle due attuali ma non proprio a un campione europeo.
Altri governi europei non stanno comportandosi meglio, basti pensare alla pervicace opposizione di quello tedesco al tentativo di UniCredit di scalare Commerzbank. Stiamo esortando l’Europa a essere più coesa nei campi della politica estera e dell’impegno militare, che sono in questo momento in cima alle preoccupazioni di tutti. Ma non dimentichiamo che a rendere più rilevante l’Europa nel mondo sarà anche una finanza moderna e integrata.