La Stampa, 22 agosto 2025
Intervista ad Anna Negri
«È uno spartiacque. C’era un prima relativamente felice e c’è un dopo, in cui niente è stato più lo stesso. È come se avessero messo in galera anche noi». La ferita si è aperta allora, quando Toni Negri, professore di Scienze Politiche all’Università di Padova, teorico militante della sinistra extra-parlamentare, fu arrestato il 7 aprile del 1979 con l’accusa di essere il capo occulto del terrorismo italiano. Pensare che quello squarcio potesse rimarginarsi era un’illusione, ma la forza di Toni, mio padre, il documentario che Anna Negri ha girato a Venezia, nella fase conclusiva dell’esistenza dell’ex– leader, morto nel 2023, è proprio quello delle imprese impossibili: «Parliamo due linguaggi diversi, lui quello della politica, io quello degli affetti. Però litigio dopo litigio restiamo là, nel caparbio tentativo di comprenderci». Il film (prodotto da Francesco Virga), in cartellone alle Giornate degli Autori, durante la prossima Mostra del Cinema, è la testimonianza viva e palpitante di un riavvicinamento faticoso, della resa dei conti fra due generazioni, di «quella mentalità rivoluzionaria dello scorso secolo» che, avvolta nella nebbia dell’ideologia, ha fatto vittime anche quando non ci sono stati sangue e spari: «Racconto come una storia pubblica e politica abbia avuto un impatto sulla vita privata delle persone».
Suo padre era già malato quando gli ha detto che voleva girare il film, come ha reagito?
«Ho dovuto chiedergli il permesso, era molto contento di fare questa cosa insieme a me. Probabilmente si aspettava un documentario più celebrativo, eppure, quando si è reso conto che il film avrebbe raccontato anche un conflitto, è stato al gioco».
Qual è stato, per lei, l’aspetto più difficile dell’impresa?
«Cercare di arrivare a momenti di intimità con una persona molto allenata a ragionare in termini scientifici e a svicolare proprio da quel tipo di argomenti. E poi essere dentro e fuori, cioè da una parte coinvolta nella discussione e dall’altra obbligata a mantenere l’occhio esterno, da regista. Una cosa non facile, soprattutto quando gli scambi diventavano animati».
Che cosa, invece, è stato bello?
«Io e mio padre non abbiamo mai più vissuto insieme da quando avevo 14 anni. Solo nell’ultima fase della sua vita, anche grazie a questo film, abbiamo potuto fare delle cose normali. C’è stato il piacere, pur nella consapevolezza che ormai il tempo a disposizione era poco, di riappropriarsi di qualcosa che non avevamo vissuto. Per me questo film è molto importante, è un lavoro sull’anima, non solo un film».
A un certo punto il suo cognome è diventato un peso. Che cosa, in quell’epoca, l’ha fatta soffrire di più?
«Ho scelto di vivere per 15 anni all’estero, allontanandomi il più possibile dall’Italia e da quello che stava succedendo. Ho cercato l’anonimato, non volevo più essere vista attraverso quel filtro, non volevo più essere “la figlia di”. Gli Anni 80 in Italia sono stati pesanti, togliersi da quell’atmosfera è stato un bene».
La vicenda di suo padre l’ha privata di tante cose. Di che cosa ha sentito più forte la mancanza?
«Della protezione familiare. Improvvisamente ho sentito di non avere più una famiglia, e mi è mancata. Ho visto cambiare il mio mondo nel giro di un mese, è stato un trauma».
Nei discorsi di suo padre l’utopia rivoluzionaria è viva, forte, radicata. Lei che rapporto ha con quel modo di vedere il mondo?
«Mio padre e quelli come lui ci credevano veramente. Non era solo retorica, venivano fuori dal fascismo, in quel periodo c’erano continui attentati alla democrazia, penso ai servizi segreti deviati e così via, le persone si sentivano chiamate in prima persona a difenderla. Forse la scusa della rivoluzione rappresentava anche un modo di partecipare alla vita pubblica, che adesso si è un po’ perso».
Dal confronto con suo padre non manca il tema femminismo e disparità tra i generi. Che lui liquida in modo abbastanza sbrigativo dicendo «del femminismo mi ha turbato l’individualismo». Secondo lei perché?
«L’assenza di femminismo è una caratteristica che mi sembra accomuni tutta la classe politica italiana. Non c’è stato, dagli Anni 70, un vero avanzamento dei valori femministi perché la questione femminile non è mai stata veramente affrontata, da nessuno, nemmeno da quelli che lottavano per rinnovare la società. E questo ha determinato l’arretratezza in cui ci troviamo».
Ha scelto di fare la regista. Il cinema l’ha aiutata a vivere?
«Mi viene in mente la famosa frase di Godard “ho fatto cinema perché non riuscivo a fare la rivoluzione”. Poi c’è da dire che, in quegli anni di solitudine, quando mia madre andava in giro per le carceri seguendo mio padre detenuto, andavo al cinema da sola tutti i giorni. Il cinema, da allora, è diventata la mia famiglia. Ho incontrato le stesse difficoltà di tutti quelli che scelgono di fare questo mestiere in Italia, in questo momento, ma sono contenta».
Che cosa vorrebbe che arrivasse al pubblico che vedrà Toni, mio padre?
«La fatica dell’amore tra un padre e una figlia. Penso che, al di la della storia che racconto, questo sia un dato che colpisca tutti. Mi sento ripetere che sono stata coraggiosa a fare il film, ma, secondo me, ero molto più coraggiosa a 14 anni, quando, con un padre su cui pendevano quelle accuse, ho tentato di condurre una vita normale».
Alla fine sente di aver perdonato suo padre oppure no?
«Si, certo. Il momento in cui mio padre ha accettato di fare questo film coincide, per me, con l’apertura di un dialogo. Bisogna anche capire le ragioni delle persone. Ho sempre pensato a me, a come il suo arresto avesse cambiato la mia esistenza, ma, quando ho gli ho chiesto quanto avesse cambiato la sua, sono rimasta molto colpita. Bisogna ricordare che è anche stato vittima di una storia». —