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 2025  agosto 22 Venerdì calendario

La fine del sogno

Quando un sogno finisce, è ancora più duro tornare alla realtà. Resta, amara, la delusione. È quanto sta avvenendo in questi giorni dopo la decisione del governo israeliano di estendere gli insediamenti ebraici e tagliare in due la Cisgiordania, rendendo così sostanzialmente impraticabile la soluzione della tragedia di un popolo senza patria: una tragedia che ha prodotto ferite indelebili nella nostra vita collettiva e versato tanto sangue innocente, dall’una e dall’altra parte. Il buio avvolge terre luminose. Betlemme, che è a pochi chilometri di distanza, si allontana da Gerusalemme Est, che di quella patria sarebbe dovuta essere la capitale. Sembra passato un secolo da quando Amos Oz, nel 2010, diceva: «Abbiamo bisogno di vivere uno accanto all’altro piuttosto che uno contro l’altro».
È ancora una volta il caso di dire, sperando come sempre di sbagliare, che il mondo non sarà più come prima dopo questo terribile agosto 2025. Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, che parla sprezzantemente di «chiodi» e di «bare», non può quindi che essere lapidario: «Abbiamo cancellato con i fatti l’ipotesi dei due Stati». Hamas, privo di una strategia che non sia la violenza, ha l’unico interesse di riuscire a compiere nuovi massacri. Il presidente americano Donald Trump, dimenticando la sua ossessione per il premio Nobel della Pace, saluta Benjamin Netanyahu come «un eroe di guerra».
Intanto, come sempre, i Paesi arabi valutano le loro convenienze nazionali. A Parigi, Berlino, Londra e Roma, con sfumature diverse, si usa la parola «inaccettabile». Ma la frase più giusta, che riguarda le coscienze di ognuno – governanti e governati – l’ha pronunciata qualche giorno fa il norvegese Jonas Gahr Støre, primo ministro di un Paese che non fa parte della claudicante Unione europea: «Il dramma di oggi è la reputazione danneggiata di Israele nelle nazioni che lo hanno visto sempre con simpatia».
La percezione di questa «reputazione danneggiata» deve riportare alla politica, combattendo sempre, nella maniera più totale, il radicalismo e il fanatismo che si sono diffusi come una malattia infettiva in quei settori delle opinioni pubbliche che incolpano un popolo per condannare l’operato di un governo. Tornare alla politica vuole dire fare ciò che non è mai stato ancora fatto: decidere limiti chiari, porre condizioni, individuare contromisure. Anche provare a convincere, come è accaduto – per esempio – il giorno di Ferragosto alla Casa Bianca a proposito di un altro conflitto. «Qualcosa di molto sbagliato è accaduto a Gaza. La giusta guerra di Israele contro i terroristi che hanno massacrato il suo popolo il 7 ottobre 2023 – ha scritto The Economist in un commento che stabilisce alcuni punti fermi – si è trasformata in morte e distruzione su scala biblica. La maggior parte della Striscia è in rovina, milioni di civili sono stati sfollati e decine di migliaia sono stati uccisi. Eppure Benjamin Netanyahu non può fermarsi».
Dopo Gaza, la Cisgiordania. Perché abbiamo parlato di «sogno»? Perché la soluzione dei due Stati è stata spesso il frutto di un’attività declamatoria di una comunità internazionale distratta, abituata a chiudere gli occhi, che ha preferito le posizione di principio ad una chiara analisi dei fatti. Un modo come un altro, a volte, per andare sul sicuro e voltare pagina. Diversi elementi hanno reso nel corso degli anni questa ipotesi sempre meno realistica: il terrorismo mai debellato completamente, l’espandersi a macchia di leopardo degli insediamenti, la crescita degli atti di violenza compiuti dai coloni estremisti o dall’esercito (un bilancio terrificante, come non si stanca di sottolineare Yuli Novak, direttrice della Ong israeliana B’Tselem), l’enorme debolezza dell’Autorità Nazionale Palestinese segnata dalla corruzione e guidata ancora oggi da un uomo di ottantanove anni, Abu Mazen, che non si è mai voluto fare da parte dopo la sua elezione alla presidenza avvenuta ormai nel 2005. Non vanno dimenticate però, in questo scenario, le sue dure dichiarazioni dell’aprile scorso contro Hamas e per la liberazione immediata degli ostaggi.
Detto questo, può anche accadere che almeno una parte dei sogni possa avverarsi. La diplomazia è ancora più necessaria quando le soluzioni non sono a portata di mano. In un quadro così complesso, il grande elemento di novità può essere rappresentato da una convergenza europea, cioè da un avvicinamento delle posizioni di Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia in vista dell’appuntamento di settembre alle Nazioni Unite favorendo sviluppi positivi – e necessari per quanto riguarda il riconoscimento dell’esistenza di Israele – nel mondo arabo. Se può essere comprensibile la posizione di chi – rispetto al riconoscimento della Palestina – mette in primo piano il percorso di un vero processo di pace, è tassativamente necessario che questo processo inizi al più presto, facendo leva sull’impossibilità materiale che lo Stato ebraico punti ad una non-soluzione e confidando nella presenza all’interno della società israeliana di forze positive, sempre vive – come abbiamo visto più volte – in un Paese che ha dichiarato la sua indipendenza, nel maggio 1948, richiamandosi alla difesa dei diritti umani «a prescindere da religione, razza o sesso». Sono parole, queste, scritte nella storia. Non tutti, purtroppo, le ricordano.