La Stampa, 21 agosto 2025
Intervista a Bruno Tabacci
Nel grande tumulto che sta scuotendo il mondo, le immagini dei leader europei alla Casa Bianca in rispettosissimo ascolto del Presidente degli Stati Uniti sono l’ennesima prova della fine della stagione internazionale iniziata 80 anni fa e Bruno Tabacci, uno degli ultimi democristiani di questo Paese, propone una sovrapposizione di immagini che fa riflettere: «Osservando quella riunione e osservando la Presidente Meloni, mi è tornato alla mente un altro momento storico, la Conferenza di pace di Parigi, quando De Gasperi intervenne a nome dell’Italia ed esordì con quelle parole così dignitose: “Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia è contro di me…”. L’ Italia era l’ex nemico, l’ex alleato di Hitler e De Gasperi rivendicò il contributo antifascista alla caduta di Mussolini e pose le basi per la trasformazione di un Paese umiliato e distrutto in un grande Paese. Ma lo fece in modo asciutto, senza retorica. Grande statura». E dunque c’è una lezione per l’attuale governo: «Nessuno statista italiano ha mai immaginato che si possa fare politica estera, basandosi su un rapporto personale. I rapporti sono tra Paesi, tra Stati, tra popoli».
Democristiano per sempre – lo era quando la Dc governava e lo è anche ora che quel partito non esiste più – classe 1946, lombardo di Quistello, Bruno Tabacci è l’unico parlamentare che abbia coperto incarichi di rilievo nella Prima Repubblica – presidente della Regione Lombardia – e al tempo stesso è tra i pochissimi nel centro-sinistra che sia riuscito a farsi eleggere in un collegio, battendo per due volte i candidati del centro-destra.
Tra i tempi di De Gasperi e quelli di Meloni sono trascorsi decenni e anche il carisma dei leader non è più quello di allora, lo ammetterà?
«Certamente i tempi sono diversi. Ma la sostanza della politica estera non cambia. De Gasperi tratta con gli Stati Uniti per il Piano Marshall ma non lo fa col cappello in mano e semmai con l’orgoglio di un Paese distrutto che vuole ricostruirsi con dignità. Che dire della presidente Meloni che ammicca a Trump sul fatto che lei non parla con la stampa? A parte che è buona regola fare le conferenze stampa non soltanto a Natale, ma ve l’immaginate Moro che dice una frase del genere?».
Bisogna sempre guardarsi dal nostalgismo, ma in effetti oggi l’Europa sarebbe politicamente potentissima se fosse andato in porto il progetto di De Gasperi sulla difesa comune?
«Nel 1953 De Gasperi impegnò tutto sé stesso nel progetto della Ced, la struttura di difesa che oggi ci avrebbe consentito autonomia militare e politica dagli Stati Uniti. Questa, sia detto senza retorica, era politica estera».
Su Gaza e sull’Ucraina, Meloni contribuisce ad una linea europea: le opposizioni non sarebbero veramente europeiste, spalleggiando e pungolando, anziché buttare sempre e comunque la palla in tribuna?
«In questa fase le opposizioni hanno obiettivi più modesti e faticano a costruire una dimensione alternativa».
Sarà che i capi del mondo sono rissosi e quelli nazionali così dediti all’invettiva reciproca, ma da qualche tempo l’appellativo di democristiano è sempre meno dispregiativo: persino Pippo Baudo è stato rivalutato per la sua simpatia dc. Come se lo spiega?
«Sì, l’atteggiamento sta cambiando rispetto ai decenni scorsi Certo, Baudo aveva classe, stile, cultura, ma alle fine perché ha ispirato tanta simpatia e rispetto? Perchè restituiva l’idea di un Paese migliore. E lo stesso vale per gli anni della Prima Repubblica: tra i tanti limiti di una classe dirigente, quel Paese era semplicemente un Paese migliore. Giorgia Meloni è abile e spesso capace, ma lo stesso non si può dire per il suo personale di governo. Da questo punto di vista i partiti della Prima Repubblica avevano una marcia in più anche nel selezionare la classe dirigente. Con un metodo meritocratico. Io, per esempio, ebbi la fortuna di “segnalare” Mario Draghi».
In che senso?
«Nel 1983 ero capo della segretaria tecnica del ministro del Tesoro Giovanni Goria, che mi incaricò di trovare un consulente di qualità. Mi consigliai con due amici di quegli anni, Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio, e venne fuori il nome di un trentacinquenne, Mario Draghi, che aveva studiato negli Stati Uniti con Franco Modigliani. Goria lo scelse e un anno e mezzo dopo lo avrebbe mandato alla Banca mondiale come vicepresidente esecutivo. Un caso esemplare di come si potessero scegliere: non gli amici o i famigli, ma i migliori. Oggi direi che tira un’aria diversa».
Al netto della nostalgia, c’è un tema che oggi coinvolge milioni di giovani, tante imprese e tanti lavoratori: nel mondo in tumulto che Italia sarà? C’è qualche lezione del passato che torna utile?
«Primo: non esiste una via nazionale, come ogni tanto dice Meloni. L’interesse nazionale non si sgancia più da quello europeo, da quello di una Europa di tipo federale e guai a perdere di vista i Volenterosi. E qui arriva un’atra grande lezione del passato: grazie a De Gasperi, all’ex capo partigiano Mattei, a Fanfani, a Moro e a Craxi l’Italia alleata degli Stati Uniti ha saputo aprire agli arabi, trovare un equilibrio in Medio Oriente, avere una politica in Nord Africa: in questa area e in Libia non c’è più una politica italiana».
Il filo rosso che tiene assieme la politica estera della Prima Repubblica e che potrebbe tornare utile nella nuova stagione?
«L’Italia, nei suoi periodi migliori, non è stata un servo sciocco degli americani. E questo, ora lo possono dire tutti, è stato un punto di forza per l’Italia e per gli italiani». —