La Stampa, 21 agosto 2025
A chi conviene pace?
«Cosa faremo se accadrà?». L’interrogativo posto da Zakhar Prilepin – famoso scrittore, testimonial delle campagne elettorali di Vladimir Putin e combattente nel Donbass – sta facendo venire i brividi a molti propagandisti. La prospettiva di un vertice tra il capo del Cremlino e Volodymyr Zelensky, che anche in assenza di un’intesa finale significherebbe una svolta, è ancora molto nebulosa, come fa capire Sergey Lavrov. Putin, a differenza di Donald Trump, appartiene alla vecchia scuola della diplomazia, e per lui i summit sono il finale del negoziato, non il suo esordio. Allo stato attuale, non ha nulla da dire al suo nemico di Kyiv, ma soprattutto prima di guardarlo in faccia deve smantellare la fortezza della propaganda che lui stesso ha costruito: come negoziare qualcosa con un «nazista cocainomane», con una «marionetta scaduta», come lo chiama Prilepin?
È vero che Putin può smentire in qualunque momento il suo ministro degli Esteri, un «Mr. Niet» che da anni ormai è impegnato più nella propaganda che nella diplomazia. Quando il dittatore russo ha bisogno di un’intesa, chiama personaggi molto più pragmatici, come il capo del fondo sovrano russo Kirill Dmitriev, un laureato negli Usa che ha portato Steve Witkoff in giro per i ristoranti di Mosca, o l’oligarca Roman Abramovich, che ha negoziato gli scambi di ostaggi in Turchia. La telefonata che Putin ha fatto ieri a Recep Tayyip Erdogan potrebbe significare la ricerca di un compromesso. Ma il segnale più inequivocabile è proprio la propaganda. I mattatori dei talk show che invocavano missili sulla Florida, ora postano zuccherosi clip con una bambina vestita del tricolore russo che volteggia in una danza romantica con un ragazzo a stelle e strisce. Siccome nulla in Russia viene trasmesso in Tv senza un’autorizzazione dall’alto, i blogger militaristi sono nel panico: «Nelle strade di Leningrado Putin ha imparato a tradire per primo», attacca Alex Parker, mentre molti suoi colleghi denunciano «il ritorno alla distensione di Gorby».
Lo scontro tra i falchi e le colombe al Cremlino ovviamente non può essere pubblico: ufficialmente in Russia non si può essere contrari alla guerra, e soltanto negli ultimi giorni i tribunali hanno emesso condanne di due, cinque e perfino otto anni di carcere per critiche della «operazione militare speciale» sui social. Nei sondaggi non si può misurare il numero dei contrari alla guerra, ma solo quello dei «favorevoli a un negoziato», che sono ormai da due anni più della metà dei russi, e continuano ad aumentare. E nella nomenclatura putiniana, il «pacifista» si nasconde dietro il pragmatismo. Come i tecnici del governo che snocciolano impassibili dati devastanti sui vari settori dell’industria russa. Il deficit del bilancio è quintuplicato rispetto alle stime di inizio anno, le spese militari sono quadruplicate dal 2022, all’8% del Pil. Nella Finanziaria del 2026, dice una fonte governativa intervistata dalla Reuters, la Russia continuerà a destinare il 40% della spesa ai militari e alla polizia. Nonostante questo, il rallentamento dell’economia è sempre più visibile, e il ministro dello Sviluppo economico Maksim Reshetnikov ha ammesso che i numeri «si vedono nello specchietto retrovisore», senza tenere conto di un ulteriore peggioramento. Al quale contribuiscono anche le sortite dei droni ucraini contro le raffinerie russe. Il prezzo della benzina ieri ha toccato un nuovo record, il 47% in più dal’’inizio dell’anno, e in Crimea e in Siberia è stato introdotto il razionamento.
Non è difficile individuare il blocco economico del governo e gli oligarchi come quelli più ansiosi di vedere una fine delle ostilità, che potrebbe portare a un almeno parziale allentamento delle sanzioni economiche. Per l’élite putiniana questo significa il ritorno alle ville e agli yacht sequestrati in Europa, e anche la possibilità di fuggire dalle sempre più diffuse rappresaglie del regime, che ha proibito l’espatrio dei funzionari. «Anche loro vorrebbero il ritorno alla normalità, con la Tv che non minacci più la guerra atomica, gli imprenditori che non cadono dalle finestre e i ministri che non si sparano più», scrive il politologo Abbas Galyamov, ex ghostwriter di Putin.
Prima di rispondere a Zelensky, e a Trump, Putin deve però misurare non soltanto le speranze dei «pacifisti», ma anche le paure dei «guerrafondai». E non si tratta solo di ideologi. La guerra è stata la fortuna di una nuova generazione di oligarchi «autarchici», e paradossalmente degli strati più poveri della popolazione, pagati migliaia di euro per arruolarsi. L’analista Elina Rybakova dice al Financial Times che «il ritorno dell’economia russa dal binario militare a quello civile potrebbe avere un impatto devastante», con la guerra che smette di essere un motore di crescita e i prezzi del petrolio non abbastanza elevati da sostituire i carri armati. —