il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2025
Il merito a scuola: la lezione cinese
Che bellezza. Era un bel po’ che ci si domandava che posto potesse ormai avere il merito in una società nella quale a destra se ne parlava fin troppo ma solo a chiacchiere, a sinistra molti lo negavano rifugiandosi dietro astratti aforismi giacobini o libertari mentre la maggior parte del paese tirava a campare seguendo l’arte d’arrangiarsi.
Gli esami scolastici sempre più semplici, i titoli di studio sempre più svalutati, le raccomandazioni, i plagi, le bustarelle…
Era una vecchia storia: da noi, quanto meno dai tempi dell’Italietta, e non solo. Esami e regolamenti, certo: a carrettate. Ma quanto a effetti, il nulla o quasi. Ricordate quel che dice il Manzoni delle Gride, i documenti normativi nella Milano barocca? «Comanda chi può, obbedisce chi vuole».
Sempre stato così. Nella Roma antica contavano le gentes, la famiglie del ceto senatoriale, o altrimenti la corruzione; nell’Europa feudale e negli Stati assoluti cinque-settecenteschi l’appartenenza all’aristocrazia o il favore dei potenti; venne “Codice civile di Napoleone ch’era un monumento di saggezza giuridica, peccato non venisse granché applicato…
Poi accadde il miracolo. Nel Regno Unito, nel 1853, un documento miracoloso, il cosiddetto Rapporto Northcote-Trevelyan, proponeva un nuovo sistema d’esami per concorso pubblico rigorosamente fondato sul metodo competitivo e su prove di merito obiettivo. Il principio passò: nonostante le proteste della potente aristocrazia britannica che cercò di ostacolarlo in tutti i modi in quanto esso minava i suoi secolari privilegi.
Può sembrare strano che in una polemica dalla quale dipendeva l’assetto della vita etica e amministrativa del regno gli oppositori della riforma ricorressero a un argomento a prima vista futile, quasi ridicolizzante. Si gridò sì allo scandalo, ma sostenendo – ingenuamente? – che si stava cercando d’importare nella libera, civilissima Inghilterra «un sistema copiato dai cinesi».
Eppure le cose stavano proprio così. Il Settecento illuminista e riformatore non aveva introdotto in Europa solo la moda delle chinoiseries. Già da prima, oltre alla lavorazione della seta avevamo imparato dai cinesi l’uso dei caratteri mobili a stampa e l’introduzione della carta-moneta, che pure causò sulle prime parecchi guai.
E la questione degli esami di merito “alla cinese” non era uno scherzo. L’aveva descritta con ammirazione il gesuita padre Matteo Ricci, nel diario pubblicato nel 1614 nel quale s’illustravano i meriti del sistema selettivo confuciano. Sulla sua scia s’erano messi filosofi come Voltaire, Montesquieu, Leibniz, d’Holbach, Goethe e Schiller.
In un mondo nel quale per l’accesso alle cariche pubbliche imperavano ancora i privilegi ereditari e l’acquisto venale – quindi la corruzione dei funzionari – l’idea del sistema concorsuale cominciò per gli esami di medicina verso il 1725, mentre in Francia esami per accedere ai ruoli amministrativi dello stesso fece timidamente capolino nel 1791, durante la Rivoluzione, per affermarsi definitivamente e ufficialmente appena nel 1941. Tuttavia, e non per caso, era stato per tempo, nel 1855, che il nuovo sistema aveva trionfato nei territori coloniali amministrati dalla East India Company. E il modello cinese era esplicitamente citato. Così anche negli Usa: nel 1868 era stato presentato un progetto per riformare la pubblica amministrazione secondo le pratiche in uso nell’antica Cina, anche se la legge fu approvata solo nel 1883.
Ma nel Celeste Impero tutto era molto chiaro. Il filosofo Confucio ne aveva formulato ordine rituale e procedura pratica fino dal VI-V secolo a. C.; e fino dal VII d. C., sotto la dinastia Sui, l’etica del perfetto funzionario era servita alla corte imperiale per liberarsi dall’arrogante e incompetente aristocrazia sostituendola con il “mandarinato”. Gli shidafu, che gli occidentali avrebbero chiamato “mandarini”, erano un ordine non ereditario di funzionari scelti attraverso esami selettivi molto duri, rigorosamente non nobili, selezionati sull’unica base del merito. I mandarini costituirono per 12 secoli il tessuto connettivo e unificante dell’immenso impero che teneva insieme popoli, razze, religioni, idiomi e costumi diversissimi tra loro ma agiva come un corpo unico centralistico e gerarchicamente ordinato. La selezione era sistematica e implacabile. Solo l’1-2 per cento dei candidati superava l’esame che comportava un titolo di laurea (jinshi). Col tempo, il modello mandarino fece scuola anche ai livelli nel quale sussisteva il privilegio ereditario: sotto la dinastia Tang anche i figli dei nobili e dei generali furono sottoposti a corsi ed esami per vedersi confermati i titoli ereditari (guozijian).
Il sistema non era esente da difetti: a cominciare dai costi della piramide burocratica, decisamente troppo alti. L’incremento demografico, altissimo specie nei secoli XII-XIII, condusse a un’affluenza agli esami pari a quasi mezzo milione di candidati.
Il sistema degli esami imperiali trasformò radicalmente la natura del potere in Cina: da dominio regale aristocratico a governo della collaborazione tra sovrano e funzionari e della competenza di ruolo.
Durante la dinastia Ming (1368–1644), il sistema subì innovazioni. Ma la dinastia, che aveva dovuto sopportare l’ingresso dei colonizzatori occidentali e aveva reagito chiudendosi su sé stessa, non poté evitare la decadenza parte della quale fu il graduale corrompersi del sistema dei pubblici esami minacciato da nuove forme di favoritismo. I successori Qing, provenienti dalla Manciuria (1644-1912), adattarono il sistema alle necessità dei nuovi arrivati etnici fino a prevedere esami bilingui in manciù e cinese. Intanto le esigenze del progresso introdotto dall’Occidente obbligarono a introdurre tra le discipline di studio scienze naturali, matematica e commercio.
Ma ormai l’impero, costretto dopo le due Guerre dell’Oppio ad aprire i porti alla penetrazione francese e inglese, affrontava la fase finale del suo declino. Dopo la rivolta dei Boxer si avviò la liquidazione del sistema d’esame: il 2 settembre 1905 l’antica venerabile istituzione del controllo imperiale sulla cultura dei funzionari venne abolita: le nazioni occidentali, ormai avviate a un’irreversibile inimicizia tra loro ma restate solidali nello sfruttamento dei mercati cinesi, sparsero a piene mani il seme delle loro esigenze nello sfruttamento di quell’immenso territorio.
E chi semina vento raccoglie tempesta: con la fine dell’impero nel 1912, la Repubblica del Kuomintang e poi il regime nazionalista uscito alla fine del periodo dei “signori della guerra” avviarono, su impulso di Sun Yatsen, lo sviluppo della nuova società cinese che ha condotto attraverso guerre e rivoluzioni alla leadership nel mondo. La violenza e la miopia dell’Europa coloniale (gli americani frattanto si erano concentrati sul Giappone) pose le basi per tutto ciò.
C’è in fondo del giusto, in quanto è accaduto. I cinesi ci avevano già insegnato il loro sistema di pubblico progresso sociale e culturale prima del dispiegamento del nostro egoismo coloniale. Noi, quel sistema, lo abbiamo distrutto; e distrutto quindi anche il nostro, che avevamo costruito ispirandoci al loro. Guardatevi intorno: abbiamo quel che ci siamo meritati.
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