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 2025  agosto 20 Mercoledì calendario

L’arte non nasce per essere utile. È un pensiero che scompagina il mondo


«Fanculo Rockefeller! Non vogliamo i vostri sporchi soldi! Se questo è l’unico modo per avere l’arte, chi se ne fotte dell’arte!». L’artista belga Jean Toche, fondatore del GAAG, Guerrilla Art Action Group, è sporco di sangue di bue quando, nel 1974, in una performance non autorizzata al MoMa di New York, denuncia trafelato il coinvolgimento dei Rockefeller (membri del board del museo) nella produzione di gas chimici e di napalm per la guerra in Vietnam. «Se l’arte è una ricerca umanitaria – conclude, prima di scappare con gli altri membri del GAAG – la sua antitesi è la distruzione della vita umana». L’azione dirompente del gruppo è come una Guernica live quarant’anni dopo, è parte della controcultura americana, della reazione massiva al consumismo e al bellicismo che non riesce però in alcun modo a trasformare la congiuntura politica. La relazione tra arte e potere, immaginazione e produttività, si riassume nella polarizzazione di due termini: utilità e inutilità. «Tutta l’arte è inutile», tuona Carmelo Bene, «l’arte è lunga e la vie est courte!». Eugène Ionesco, Oscar Wilde, Marcel Duchamp, Antonin Artaud ne sono la dimostrazione viva, sono il polso e la carne di un linguaggio eversivo che non ha un’utilità materiale, una sintassi codificata e neppure un carattere funzionale. Se, nella società industriale e post-industriale ogni prodotto ha uno scopo pratico, l’arte si sottrae al perpetuarsi di modelli assodati perché, come sostiene Theodor W. Adorno, la sua «inutilità» è una forma di resistenza al sistema capitalistico. L’utilità è limitata, indica uno spazio stretto, eminentemente pratico che serve a uno scopo. Ma, afferma Giorgio De Chirico, «L’arte non serve perché non è una serva». Non è utile ma è fondamentale e radicale, perché scompagina formule e abitudini, crea enigmi, spiritualità e visioni. Marcel Duchamp, nel 1917, comprò in un negozio di idraulica un orinatoio. Lo mise su un piedistallo, lo intitolò Fountain e lo firmò con lo pseudonimo R. Mutt. Lo propose alla Society of Indipendent Artists di New York per una mostra alla quale parteciparono 1.200 artisti pagando ciascuno una somma di sei dollari. Ma, quella che sarebbe diventata la pietra miliare dell’arte moderna, venne rifiutata perché la commissione sostenne che «quella cosa» non era un’opera d’arte. Duchamp privò l’oggetto della sua utilità, ne cambiò la posizione e il punto di vista, compiendo un’operazione concettuale senza precedenti, che implicava il senso stesso del fare arte. Fountain autorizzava forse lo spettatore a pisciare sull’opera?Nel folle caleidoscopio del nostro presente dove tutto è possibile, esperibile e visibile – dai corpi perfetti dei brand di intimo ai corpi cadaverici dei palestinesi trattati come i protagonisti di Squid Game – l’arte costituisce la terza via, la possibilità di un pensiero, forse. Un pensiero che si smarca dagli istinti basici di una mass-culture che coltiva un linguaggio semplificato e acritico mantenendo la colonizzazione delle menti. Se non cambia il mondo, l’arte può almeno trasformare le coscienze, per questo gli stati totalitari e le pseudo-democrazie la perseguitano e la censurano. Hannah Arendt, in una lettera del 1963 a Gershom Scholem, afferma: «Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale” ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero giacché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale». Ed ecco la radicalità dell’arte che smonta convenzioni, costrizioni e castrazioni creando spaesamenti. Se l’immagine del male si espande con lo show business, portando la realtà a un livello spaventosamente superficiale, il bene – e l’arte concepita come «propensione al bene» (Carla Lonzi) – è radicale. Pianta radici nella profondità dell’anima, è rivoluzionaria e persistente. Il gruppo Fluxus, nato alla fine degli anni Cinquanta, è una costellazione di performer anti-arte che traduce piccoli gesti quotidiani in momenti epici e ironici come accendere e spegnere un interruttore per dieci minuti o trasformare i rumori corporali in un brano d’orchestra. Con libertà e ilarità, Fluxus sovverte il quotidiano svuotandolo della sua meccanica utilità e conferendo a ogni attimo di vita una valenza assoluta. Quando, nel 1959, il compositore americano John Cage partecipa a Lascia o Raddoppia come esperto di micologia, Mike Buongiorno gli chiede una dimostrazione del lavoro. Water Walking è il brano suonato in tv utilizzando oggetti ordinari: una vasca da bagno, acqua, una paperella, un tostapane, un pianoforte, un frullatore. Il pubblico è esterrefatto e il presentatore ridacchia. Nel 1958, a Milano, Cage registrò i versi delle foche allo zoo, i suoni del tram n. 1, i rumori della Rinascente e delle strade, la voce della padrona di casa e quella di Mussolini. Frantumò consonanti e vocali, tagliò, riregistrò e ricompose i suoni innumerevoli volte, dimostrando che tutto il mondo è un concerto e ogni cosa è concatenata. Mike Buongiorno, definito da Umberto Eco l’uomo medio che incarna perfettamente la mediocrità, chiese a Cage se dopo la vittoria al quiz sarebbe tornato negli USA. Alla sua dichiarazione: «Sì io parto ma la mia musica resta», il presentatore rispose: «Sarebbe meglio che lei restare e la sua musica partisse». —