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 2025  agosto 20 Mercoledì calendario

Nel 1947 su L’Unità, in un articolo dal titolo eloquente (Ieri e oggi), Cesare Pavese fa i conti definitivi con gli Stati Uniti


Nel 1947 su L’Unità, in un articolo dal titolo eloquente (Ieri e oggi), Cesare Pavese fa i conti definitivi con gli Stati Uniti. Quel Paese era stato, per lui e tanti altri, paradiso di libertà fin dagli Anni Trenta, quando nei suoi libri scoprivano un’America «greve di tutto il passato del mondo e insieme giovane, innocente». Perciò li tradussero con gioia di rivolta: le autorità fasciste li tollerarono a malapena, con censure e sequestri, ma quelle traduzioni alimentarono l’opposizione politica, sebbene «generica e futile», degli italiani che leggevano. Tuttavia, a quel passato promettente e mitico Pavese contrappone un amaro e concreto presente in cui l’America, «senza un fascismo a cui opporsi», cioè priva di un pensiero progressivo da incarnare, «per quanti grattacieli e automobili e soldati produca, non sarà più all’avanguardia di nessuna cultura», rischiando di «darsi essa stessa a un fascismo, e sia pure nel nome delle sue tradizioni migliori».
Dopo ottant’anni queste parole risuonano ancora attuali. Prima di tutto perché l’America che rischia di darsi a un fascismo sembra quella di oggi. E poi perché Cesare Pavese svela il segreto che ha permesso, a lui e a noi, di innamorarci della letteratura americana: tradurla. Il rapporto tra il nostro Paese e gli Stati Uniti è da sempre intenso e ha creato connessioni che hanno saldato due culture solo apparentemente simili. Per gli italiani, l’America aveva due facce: per chi emigrava in cerca di fortuna era l’unico Paese dove non morire di fame, mentre gli intellettuali giudicavano gli americani bizzarri e non certo all’altezza della nostra millenaria tradizione culturale e della nostra sublime letteratura.
La letteratura americana ci è giunta quindi solo grazie alla lungimiranza dei traduttori, che in quelle storie vedevano non una mediocre imitazione dei nostri modi di scrivere ma un’alternativa più valida della nostra, spesso basata sulla ripetizione di modelli e schemi vuoti.
Questo entusiasmo ha comportato dei fraintendimenti (come l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, che da ottant’anni ritraduciamo in preda a suggestioni non avendola mai capita fino in fondo), ma ha contribuito a diffondere anche nel nostro Paese un modo diverso di leggere e scrivere che non di rado ha poi alimentato tentativi di cambiamento e rivolta. Un modo diverso di ragionare, arrivatoci e fatto nostro grazie al continuo sforzo di adattare espressioni linguistiche che implicano modi di vedere il mondo diversi a quelli a cui siamo abituati.
La più grande sfida dei traduttori italiani è quella di convogliare, nella lingua, la visione del mondo americana: come i traduttori americani, per rendere la Divina commedia, hanno dovuto abbandonare la terza rima e l’italiano del Duecento, così rendere il senso di un romanzo americano in italiano va al di là della semplice resa dell’equivalente linguistico delle sue parole e frasi.
La letteratura americana, basata da sempre sulla scoperta di nuove terre o nuove sensazioni che spostano un po’ più in là i confini della frontiera del già noto, esercita da sempre su di noi un grande fascino. Tratteggia l’epica dell’uomo comune che – a differenza di Ulisse o Enea – non ha bisogno di essere principe o condottiero e nemmeno che una divinità scelga il suo destino: l’epica degli Stati Uniti è quella dei self-made men e women che non devono chiedere conto a nessuno ma – con tutta la spietata arroganza di chi vuole vivere – andare avanti fino alla meta. Nulla di più lontano da ciò su cui si basano la nostra cultura umanistica e cattolica e la nostra letteratura. I traduttori di ieri e di oggi devono dunque riempire le forme della lingua italiana di contenuti a essa estranei, addomesticandoli come farebbe un cowboy con un giovane puledro.
E quelli di domani? Negli Anni Trenta del New Deal e del fascismo gli Stati Uniti apparivano – senza esserlo del tutto – democratici, ma oggi come li dobbiamo giudicare? Un Paese che sembra perdere ogni giorno di più il suo pensiero progressivo potrà ancora dare forma a una letteratura aperta? Non è una questione da poco, per noi, che siamo abituati a vedere nella letteratura americana il grande modello (impossibile) da imitare: ci vorrebbero anni per trovare altri Paesi e culture da seguire.
La risposta non è facile ma parte dalla constatazione che un’America che ci respinge politicamente può comunque, grazie alle sue mille sfaccettature, essere anche tutt’altro. Un esempio sono gli interessantissimi esperimenti letterari di quelle voci rimaste ai margini per decenni, come gli autori nativi che sfruttano lo stile letterario degli horror per rinarrare l’emarginazione dei loro popoli (alcuni dei loro libri sono già stati tradotti, come quelli di Stephen Graham Jones). Questi libri sono significativi proprio perché i loro autori rifiutano l’eccezionalismo che contraddistingue da sempre la cultura americana ma, al contrario, riescono finalmente a far sentire le loro voci di popolazioni emarginate, sterminate proprio per creare quel mito della frontiera che tanto ci ha appassionati.
Questa capacità di mettere le cose in prospettiva e riconoscere gli errori del passato è forse una delle ultime grandi lezioni che possiamo ancora assorbire da quella letteratura. In momenti di vuoto politico, ad attrarci è ciò che esprime la vitalità dell’uomo libero; trovare questa possibilità negata anche nel Paese che incarna da sempre l’immagine delle possibilità è un duro colpo da digerire. A maggior ragione, ringraziamo i nostri traduttori che, da sempre, mantengono vivo il dialogo tra due tradizioni e due culture all’apparenza simili ma diversissime. —