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 2025  agosto 20 Mercoledì calendario

Calissano: «Ecco chi tradì mio fratello»

«L’avevano emarginato. Quando crollò lo aiutò solo Maurizio Costanzo». Parla Roberto Calissano, il fratello di Paolo, morto nel 2021. «Quando è finito in carcere – ricorda – non si è più risollevato. Pensava di avere disonorato la famiglia e se ne vergognava».
Paolo.
«Era il maggiore, più grande di dieci mesi e mezzo. Una classe avanti. Però faceva grado, come al militare. Nella cameretta che dividevamo da bambini, fu lui a scegliere per primo il letto, vicino alla finestra. E anche dopo, sono sempre rimasto quello “piccolo”». Roberto Calissano, 57 anni, imprenditore, è il fratello dell’attore genovese, bello e tormentato, morto il 29 dicembre 2021 a 54 anni. Solo. Intossicato da un mix di antidepressivi. «Non fu uno sbaglio, cercava la morte, non ha retto, non voleva più vivere. Ha scelto quello anziché buttarsi sotto a un treno».
Un ricordo incancellabile.
«Avevamo 7 e 8 anni. I nostri genitori stavano litigando. Urlavano. Ci siamo nascosti nello sgabuzzino rivestito di moquette blu. E abbiamo pianificato di scappare di casa, ognuno con il suo piccolo fagotto».
Così diversi.
«Secondo il metodo Montessori, potevamo scrivere sui muri. Io disegnavo elicotteri, lui qualche donnina. Da adolescenti, io appendevo foto di motociclette. Paolo quelle delle sue fidanzatine. Era un ragazzino molto precoce».
Le babysitter.
«Dopo la separazione, vivevamo con nostra madre. Quando partiva con il nuovo compagno, ci affidava alle figlie di qualche sua amica, che avevano 18, 19 anni. Noi 14 e 15. Capirai. Paolo tesseva la sua tela di seduttore e riusciva a farle capitolare. Le portava sul lettone di mamma. Per comprare il mio silenzio mi regalava qualche reggiseno».
Sfrontato.
«Gli piaceva mostrarsi come natura l’aveva fatto. Esibiva la virilità come un trofeo. Mi apriva la porta con l’accappatoio aperto, davanti alla mia fidanzata. E rideva».
Eravate legatissimi.
«Fu lui a insegnarmi come si prende un autobus, a timbrare il biglietto, a prenotare la fermata. Era portiere nelle giovanili della Samp. Lo allenavo lanciandogli i palloni in corridoio. Dovette smettere per un problema al ginocchio, ma restò amico di Vialli e Mancini. Però era tifoso del Genoa, si portò la maglia an ch e all’ Isola dei Famosi».
Una vacanza.
«In crociera tra Sardegna e Corsica, Paolo litigò con papà. Si buttò dalla barca e raggiunse la riva a nuoto. Lo seguii sul canotto per portargli almeno pantaloncini e maglietta e cinquemila lire per un panino. Aveva 15 anni ma riuscì a tornare a Genova da solo».
Mai contesi una ragazza?
«No, avevamo gusti diversi. Mi consideravo lo sfigato, ma capitava che delle sue fidanzate volessero passare da lui a me, più che il contrario».
Non ne era geloso.
«Anzi, ero orgoglioso che fosse un gran figo. Quando prenotavo un ristorante, scandivo bene il cognome. “Calissano come l’attore?”, chiedevano. “Sì, è mio fratello”. Specie nel periodo di Vivere mi gasavo, come fossi io quello famoso».
Vostro padre Vittorio.
«Ex ufficiale dell’Aeronautica, severo, non capì le qualità di Paolo, credeva che come attore avrebbe fallito. Lo voleva in azienda, come me. Mio fratello lo mandò al diavolo. La disapprovazione paterna lo ha segnato per sempre».
In America.
«Dopo il servizio militare – io nei paracadutisti, lui nei carabinieri – siamo partiti per gli Usa per studiare, io a San Diego, Paolo sulla costa Est. Venne a trovarmi durante le vacanze di primavera. Poi se ne andò a Los Angeles. Non conosceva nessuno ma subito dopo finì sulla copertina di Men’s Fitness. Lo notò persino il regista Joel Schumacher, quello di Batman. Era magnetico e carismatico,si faceva benvolere da tutti».
Come viveva il successo?
«Bene, anche se veniva assalito ovunque, pure dal benzinaio. Si stupiva di come la gente si prendesse tanta confidenza, lo toccavano, gli davano del tu anche se non lo conoscevano».
Era depresso.
«Sì, ma lo nascondeva. Non è stata una famiglia facile in cui crescere, la nostra. Non siamo mai stati supportati, specialmente lui. Ne soffriva. Con me non ne parlava, non voleva mostrare debolezza, si sentiva pur sempre il fratello maggiore».
La dipendenza.
«Mi ero accorto che in alcune occasioni aveva reazioni sopra le righe, era aggressivo. Qualche domanda me la sono posta. Ma se gli chiedevo spiegazioni mi rispondeva: “Tu fatti i fatti tuoi”. Se avessi intuito allora quello che sarebbe successo mi sarei imposto diversamente».
Nel 2005 una donna brasiliana morì per overdose di cocaina nella sua casa di Genova. Paolo fu accusato di avergliela ceduta. Finì in carcere. Patteggiò quattro anni di reclusione scontati in una comunità di recupero per tossicodipendenti.
«Non si è più risollevato. Non fu colpa sua, è stata una disgrazia. Mio fratello provava profonda vergogna per aver disonorato la famiglia».
Venne emarginato.
«Il lavoro si è azzerato. Non lo cercavano più. Aveva scontato la pena, ma contro di lui è rimasta una censura morale fortissima. In America altri attori dalla vita turbolenta – Robert Downey Jr o Mel Gibson – sono stati perdonati».
Lui no.
«Negli anni il suo nome continuava ad essere associato a quel fatto di cronaca, mentre lui anelava all’oblio. Una volta si sentì male e andò al pronto soccorso. Qualcuno dell’ospedale fece la spia ai giornali, scrissero che era fatto di cocaina, anche se non era vero. Lo invitavano in tv solo per parlare di droga».
Qualcuno lo aiutò?
«Maurizio Costanzo gli tese una mano, gli voleva bene. Ma lui fuggiva, tormentato dai suoi demoni».
Era fragile.
«Sì. E chi doveva aiutarlo lo ha isolato ancora di più».
Chi intende?
«Matteo Minna, amministratore di sostegno. Glielo presentai io, vivo con questo rimorso, il senso di colpa mi devasta. Lo consideravo un terzo fratello. Invece ci ha tradito. Tra noi c’è un processo ancora in corso».
Ricadde nel vizio.
«Mi ero illuso che fosse stata solo una fase. Invece no. Provai a dirgli di smettere, che si stava rovinando. Reagiva con rabbia. “Tu non capisci, sei il più piccolo, non conosci la vita. Lavori nell’aziendina di papà, io mi sono fatto da solo”. Quando infine smise con la cocaina la sostituì con i tranquillanti. Sono stati quelli a ucciderlo, non la droga».
Per un certo periodo vi siete allontanati.
«Avevamo litigato proprio per il suo stile di vita. “Mi farai crepare di dispiacere”, urlai. L’estate prima che morisse però mi ha richiamato e abbiamo fatto pace. Voleva scappare da Roma, tornare a Genova. Si era riproposto come sceneggiatore, era bravo, ma poi ci fu il Covid e tutti i suoi progetti si bloccarono lì».
L’ultimo ricordo.
«Una settimana prima che mancasse, gli ho telefonato per invitarlo a trascorrere insieme le feste di Natale. “Preferisco restare a casa mia”. Aveva la voce affaticata, sofferente, impastata. Era il preludio della fine».
Che arrivò la notte del 29 dicembre 2021.
«Quando ho ricevuto la telefonata dell’amministratore di sostegno – “Paolo è morto” – non ci ho creduto. Con i tranquillanti mio fratello dormiva pure tre giorni di fila. Non sentiva il telefono né il citofono. Già due anni prima lo avevamo ripreso per i capelli. Risposi: “No dai, prova a scuoterlo, vedrai che si sveglia”. “Ti dico che è morto, Roberto”. “Controlla bene, dorme soltanto”. “Guarda che è già venuta la polizia”».
A quel punto si arrese.
«Sì. Erano le 10 di sera. Non l’ho voluto vedere da morto. Ancora oggi, quando guardo le fotografie, me lo ricordo perfettamente. La sua pelle, i capelli neri, il naso, come se l’avessi visto un secondo fa».
L’immagine che ha fissato nella mente.
«Quando col rasoio mi sistemava ciuffo e basette, facendomi chinare la testa sul lavandino. “Ma come vai in giro? Vieni qua che te li aggiusto io. Era il suo modo per dirmi:”Ti voglio bene”».