Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  agosto 19 Martedì calendario

Jim Fante Ra cconta suo padre John


Mentre rifletto sull’idea di scrivere ancora qualcosa su mio padre, mi rendo conto che i suoi scritti parlano da soli: oggi vengono studiati in tutto il mondo. C’è ben poco che io possa aggiungere. Quello che però conosco davvero bene è l’uomo, John Fante, e il padre.
Sono il più giovane dei quattro figli di John e Joyce Fante. Entrambi sono scomparsi molti anni fa, seguiti dai miei due fratelli maggiori. Ora restiamo solo io e mia sorella Victoria, nati a un anno di distanza l’uno dall’altra, quando nostro padre aveva poco più di quarant’anni. Eravamo ancora piccoli quando ci trasferimmo nella nostra casa a Pt. Dume, a Malibu, che all’epoca era piuttosto isolata.
Papà era già uno scrittore affermato e lasciava gran parte del compito di crescerci a nostra madre. La mattina usciva con la sua Porsche, diretto per lo più agli studi cinematografici dove lavorava. Tornava nel tardo pomeriggio, e la cena in famiglia era un rito quotidiano. Le conversazioni ruotavano spesso attorno al suo lavoro, che lo assorbiva completamente. A noi figli veniva chiesto soltanto di non combinare guai e di ottenere buoni voti. Ovviamente non riuscivamo a fare né l’una né l’altra cosa. Mia madre era solita dire: «I bambini devono essere visti, non sentiti». Fu a otto anni che tra me e mio padre nacque un’amicizia vera, grazie allo sport. Ne parlava poco, ma era stato quarterback della squadra di football del liceo e un lanciatore di baseball di successo, sia al liceo che all’università. Scoprii solo più tardi che suo padre lo aveva perfino fatto combattere da pugile professionista nei bar di Boulder, in Colorado – e il suo naso rotto ne era la prova. Era anche un eccellente golfista.
Insieme guardavamo partite di baseball, football, basket e incontri di pugilato al Madison Square Garden. Presto iniziammo ad andare insieme a Los Angeles per assistere di persona a eventi memorabili: ad esempio Cassius Clay, Jim Brown, Sandy Koufax, e le partite di basket di UCLA e dei Lakers. Era quello il fondamento della nostra amicizia, e del nostro rapporto. All’epoca non me ne rendevo conto, ma l’assenza di un legame simile con i miei fratelli stava scavando una distanza profonda, destinata a trasformarsi in dolore.
Mio fratello maggiore, Nick, si arruolò in Marina a diciott’anni e tornò alcolizzato, conducendo una vita segnata dalla sofferenza, fino alla morte per alcolismo a 55 anni. L’altro mio fratello, Dan, lasciò casa a diciott’anni per andare in autostop a New York, e sparì per quasi un decennio. Negli ultimi anni ha ripreso a scrivere qualcosa, ma la sua vita è stata segnata dalle difficoltà, fino a una morte prematura, forse proprio nel momento più felice, con una nuova moglie e un figlio piccolo.
Queste vicende pesarono molto su papà. Per quanto fosse un padre poco convenzionale, amava profondamente i suoi figli. Nei primi anni Sessanta soffrì di un’ulcera sanguinante, alimentata dall’angoscia per i miei fratelli. Ricordo nitidamente quelle ore terribili in ospedale. Ma ce la fece, e da quel momento il mio mondo poté respirare un po’.
Il nostro legame non smise mai di crescere. Papà e io restammo uniti da quella passione condivisa per lo sport. Non eravamo padre e figlio nel senso tradizionale, ma amici legati da un’intensa complicità. Il rapporto mancato con i miei fratelli era doloroso, ma in parte comprensibile: rifletteva le sue origini in una famiglia di immigrati italo-americani. Suo padre, muratore e alcolizzato, era un uomo amareggiato, sopraffatto dalle difficoltà e da un contesto ostile – il Ku Klux Klan era attivo a Boulder – e incapace di offrire un modello positivo.
La vera salvezza di mio padre fu il talento. Fu quella scintilla artistica, chiara e potente, a dargli la forza di andare avanti. Credeva profondamente in se stesso e nel dono che Dio gli aveva fatto. E non ha mai smesso di onorarlo.
So bene quanto amasse la sua famiglia. La vita di un artista dotato viene spesso giudicata secondo modelli di comportamento convenzionali, ma papà non era un uomo convenzionale – e non avrei voluto che fosse diverso.
Il giorno in cui morì, gli raccontai le ultime notizie sui suoi amati Los Angeles Dodgers. Sebbene cieco e ormai molto debole, mi strinse la mano e mi rivolse un sorriso bellissimo e complice, che porterò sempre con me.
Vorrei aggiungere ancora una cosa: papà il conversatore. Quando ero in terza media, a volte dopo scuola andavo a piedi nel suo ufficio a Santa Monica. Più di una volta lo trovai su una panchina, circondato da persone di ogni età ed estrazione. Non le avevo mai viste prima, né le avrei mai più riviste. Erano simili a quelle che, anni prima, accoglieva nella sua stanza a Bunker Hill. Era in perfetta sintonia con tutti, e tutti lo erano con lui. Pendevano dalle sue labbra mentre raccontava le sue storie – spesso già sentite, ma sempre con qualche nuovo colpo di scena che solo lui sapeva inserire. Sapevo che non dovevo metterne in dubbio la veridicità: non era quello il punto. Il legame che sapeva creare era autentico, evidente, profondo.
Non diceva mai chi era, né cosa aveva scritto. Si limitava a essere se stesso. E bastava. Forse è proprio questa sua capacità di toccare il cuore delle persone che, dopo così tanto tempo, ci riunisce ancora oggi intorno a lui. —