La Stampa, 19 agosto 2025
Il dilemma di Zelensky Congelare il conflitto in Ucraina in cambio della sicurezza
Niente cravatta: nonostante la richiesta esplicita del protocollo della Casa Bianca, Volodymyr Zelensky si è rifiutato di cedere a un abito formale. È un presidente in guerra, e non ha voluto fingere di non esserlo. Il massimo del compromesso è stata una giacca con camicia, di foggia più classica rispetto alle solite maglie verde militare, un look total black in netto contrasto con la cravatta rossa di Donald Trump e le nuove sgargianti decorazioni dorate dello Studio Ovale. I complimenti del padrone di casa uscito ad accoglierlo alla stessa porta dalla quale il presidente ucraino era stato cacciato il 28 febbraio scorso, il siparietto con il giornalista che l’aveva criticato – anzi, “aggredito”, secondo la definizione dello stesso Trump – per non essere abbastanza elegante, e che gli ha chiesto scusa in mondovisione, il silenzio di JD Vance: il ritorno sul luogo dove si era consumata la scena più scandalosa della diplomazia contemporanea è stato allestito come un trionfo di Zelensky. Sei mesi fa, forse nemmeno lui avrebbe scommesso di tornarci un giorno, meno che mai in compagnia delle donne e degli uomini più potenti d’Europa, e di venire accolto con tutti gli onori, nonostante l’assenza della cravatta.
Del resto, tutta la carriera di Zelensky è un succedersi di alti e bassi vertiginosi, e di “no” pronunciati quando in teoria non avrebbe potuto permetterselo. Come quel primo rifiuto opposto a Trump, nel 2019, quando il leader americano gli aveva chiesto di incriminare Hunter Biden per il suo business ucraino. E come quello – passato alla storia e finito sulle felpe e sulle tazze che si vendono ai banchetti di souvenir a Kyiv – con il quale aveva risposto a Joe Biden che gli offriva la fuga dall’invasione russa e un rifugio al sicuro in Polonia. «Non mi serve un taxi, mi servono munizioni»: tre anni e mezzo dopo la risposta non cambia, e alla domanda dei giornalisti se dagli Usa vorrebbe più armi, più aiuti o più intelligence, il presidente ucraino risponde «Tutto».
Una risposta quasi ardita, in presenza di quel Donald Trump che per ben tre volte ha chiuso gli aiuti militari a Kyiv per punirla, e di fronte alla mappa dell’Ucraina già srotolata nell’Ufficio Ovale, con i territori occupati dalle truppe di Putin colorati in rosa carne, quasi una tavola anatomica che illustra le linee della possibile amputazione. In realtà, Zelensky ha imparato a caro prezzo l’arte del compromesso e della pazienza: non batte ciglio quanto il presidente americano parla di «scambio di territori» anche se sa che si tratta in entrambi i casi di territori ucraini abitati da ucraini. Ringrazia Trump ogni dieci secondi, per qualunque cosa, anche per aver installato la mappa, sinistro memento della mutilazione che aspetta il suo Paese. Questa è la nuova regola della diplomazia internazionale, già fatta propria anche da altri leader europei: il presidente americano non va contraddetto o smentito, può essere solo incentivato, con piani che gli promettono più gloria e profitti di quelli che gli ha prospettato l’avversario, in questo caso Vladimir Putin.
È il giorno più duro per Zelensky, pieno di dilemmi ai quali non esiste una soluzione buona. Fermare la guerra e salvare le vite di chi combatte e di chi muore sotto le bombe russe, ma lasciare gli ucraini nei territori occupati sotto Putin, e milioni di profughi senza la speranza di tornare a casa? “Congelare” un pezzo di Ucraina in cambio di garanzie di sicurezza che le permetteranno (forse) di entrare nell’Ue e tutelarsi da future aggressioni da Est? Dividere una nazione, in attesa di una traumatica riunificazione un giorno (o forse mai)? Sperare che Putin si accontenti, o rischiare che il precedente di una acquisizione territoriale ottenuta con le armi – per quanto non riconosciuta, questa è una linea rossa oltre la quale si aprirebbe un vaso di Pandora non solo europeo – mandi in frantumi quanto resta dell’ordine internazionale? Quando aveva vinto le elezioni, come – paradosso amarissimo – “presidente della pace”, il 47enne ex comico di Kryviy Rih sicuramente non avrebbe potuto immaginare che un giorno si sarebbe trovato nell’Ufficio Ovale, di fronte a una mappa dell’Ucraina, per prendere decisioni che potrebbero rivelarsi fatali non solo per il suo Paese, ma anche per tutto il continente.
La feroce scuola diplomatica di quattro anni di guerra ha lasciato sul volto di Zelensky rughe profonde, e gli ha insegnato che essere dalla parte giusta della storia a volte non basta. Ora, qualunque cosa decida, milioni di persone non riusciranno a perdonarlo. Quello che non può davvero permettersi è lasciare agli ucraini una sensazione di sconfitta, peggio ancora il dubbio di essere stati costretti a una pace ingiusta non dall’inesorabilità delle bombe, ma dal voltafaccia di un presidente americano. Per evitarlo, basta guardarsi indietro, al febbraio 2022, quando gli stessi leader europei che oggi hanno accompagnato Zelensky alla Casa Bianca gli consigliavano un dialogo sulla resa, cercavano ancora di dialogare con Putin, rifiutandosi di mandare a Kyiv anche armi essenziali e di rinunciare al gas russo. Oggi, un’Europa unita come forse mai prima protegge l’Ucraina di Zelensky, e ne condivide le paure e le speranze. —