Il Messaggero, 19 agosto 2025
Il prezzo del Donbass
Il Donbass è più di un territorio conteso, è la linea rossa di Zelensky. È un crocevia di ferro e carbone, di città industriali e di fortificazioni costruite in 11 anni di guerra, a partire dal 2014. Battaglia dopo battaglia, massacro dopo massacro, è diventato il simbolo stesso della resistenza ucraina. Putin lo pretende intero, Zelensky non può consegnarlo: la distanza tra queste due posizioni è l’abisso che rende complicato ogni accordo. Mosca ha messo sul tavolo un ultimatum, spacciandolo per proposta di pace: ritiro totale degli ucraini dalle regioni orientali di Donetsk e Luhansk, appunto il Donbass, in cambio di un congelamento della linea del fronte nelle aree meridionali di Kherson e Zaporizhzhia. Proposta che suona per Kiev come una resa mascherata. Zelensky lo ha detto e ripetuto: «Non lasceremo il Donbass, non possiamo». Per un principio di sovranità, ma anche perché cederlo significherebbe smantellare lo scudo che ha protetto finora l’intera Ucraina.
GLI INSEDIAMENTI
Il cuore della difesa nazionale è infatti la cintura fortificata creata con sangue, soldi e sudore nel Donetsk: le 4 grandi città di Slovyansk, Kramatorsk, Druzhkivka e Kostyantynivka, più una costellazione di insediamenti lungo la H-20. Lì vivevano prima della guerra più di 380 mila persone, e lì gli ucraini hanno eretto barriere, linee trincerate, infrastrutture militari e industriali. È la muraglia che blocca i russi dal 2014, l’anno della prima invasione e dell’annessione della Crimea. Conquistarla (per i russi) o cederla (per gli ucraini) significherebbe aprire la strada ai carri armati di Putin verso Kharkiv e Dnipro, potendo dislocare d’un tratto e senza alcuna resistenza le truppe a meno di 100 chilometri più a ovest, su un terreno di pianure aperte senza difese naturali. Mosca ha dimostrato di non avere i mezzi per vincere questa battaglia: da tre anni tenta di aggirare la cintura, nelle ultime settimane con manovre di incursori che sono stati annientati uno per uno con i droni. I russi ci hanno provato in tutti i modi, con test di sfondamento e incursioni mirate. Ogni chilometro già strappato è costato migliaia di vite, e ancora la linea resiste. Secondo l’Institute for the Study of War, arrendersi adesso concederebbe ai russi un vantaggio decisivo, non per una vittoria militare ma per una decisione politica. Perdere il Donbass sarebbe come spalancare la porta all’invasione nel cuore dell’Ucraina. Se non oggi, in futuro. E la prospettiva temporale di Putin è quella degli Zar. Putin sa che occupare il 100 per cento della regione con la forza è quasi impossibile. Mancano poche sacche nel Lugansk e almeno un quinto del Donetsk. Un’analisi della Difesa britannica calcola che con l’attuale ritmo di avanzata servirebbero ai russi più di 4,4 anni di guerra. A un prezzo catastrofico: 1.930.000 tra morti e feriti, che si aggiungerebbero a 1.060.000 già stimato dall’inizio dell’invasione. Numeri che da soli spiegano perché il Cremlino insista su una cessione negoziata invece che su una conquista militare. L’esercito russo, logorato e pieno di reclute inesperte, potrebbe non avere a lungo la capacità di assorbire altre perdite senza incrinare la stabilità interna, specie nelle Repubbliche periferiche e più povere.
LA QUESTIONE POLITICA
Per questo Putin vuole evitare anni di combattimenti e trovare un modo per incassare subito ciò che non è riuscito a guadagnare sul terreno. Sapendo, oltretutto, che col tempo l’offensiva potrà riprendere con qualche pretesto astutamente innescato secondo i dettami della “guerra ibrida” di cui i russi sono maestri. Per l’Ucraina, il Donbass è anche una questione politica. Nella parte rimasta libera vivono oltre 200 mila civili, mentre i due terzi sono già occupati. Organizzazioni indipendenti e investigatori Onu hanno documentato in quelle zone torture, deportazioni, sparizioni forzate. «Non c’è vita nei territori occupati, le persone stanno semplicemente sopravvivendo», racconta Kateryna Arisoy, originaria di Bakhmut a capo di un’associazione che aiuta i profughi. La consegna di ciò che resta del Donbass consegnerebbe centinaia di migliaia di cittadini a un destino di repressione. C’è poi un nodo identitario. Più dei tre quarti degli ucraini rifiutano qualsiasi scambio di territori, e nell’esercito la percentuale è persino più alta. Zelensky non avrebbe neppure il potere costituzionale di cedere porzioni di territorio: la legge lo vieta, e la legittimità del suo governo crollerebbe. Come ricorda lo storico Yaroslav Hrytsak, l’identità ucraina si fonda su un principio antico, che risale ai cosacchi: «Niente su di noi senza di noi». Trattare alle spalle del Paese equivale a negarne l’esistenza. Ecco perché, nonostante i sondaggi in calo, Zelensky trova consenso nel dire no. Perché per ogni ucraino il Donbass non è solo una terra: è il luogo in cui vivono i propri concittadini, in cui si combatte dal 2014, in cui si è pagato un tributo di sangue.
LA BATTAGLIA
Tra le rovine del Donbass, la battaglia di Bakhmut resta la ferita più emblematica. Città senza valore strategico decisivo, trasformata in un “tritacarne” paragonato a Verdun o Stalingrado, è diventata la «fortezza del morale», come l’ha definita Zelensky. Difenderla ha dimostrato che l’Ucraina non arretra, a costo di perdite enormi. Cedere ora l’intero Donbass equivarrebbe a tradire quel sacrificio. La caduta di Bakhmut era diventata un punto d’orgoglio per i russi, ed è servita a frenarne l’avanzata. Per il Cremlino la posta è duplice: dimostrare che la guerra ha avuto un senso e consolidare il controllo su una regione che rappresenta la narrazione fondante della sua offensiva, la “liberazione” dei russi d’Ucraina, la cui presunta oppressione rientra fra le “cause profonde” della guerra citate da Putin. Ma la realtà è che Mosca non può più ottenere con le armi ciò che reclama a voce. Ecco perché il Donbass resta il punto incandescente del conflitto. Per Putin è il trofeo da esibire, l’obiettivo irrinunciabile. Per l’Ucraina è la linea rossa, la trincea dell’identità e della sopravvivenza.