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 2025  agosto 19 Martedì calendario

Haters, «persino il commento più stronzo può essere sfruttato a scopo auto-promozionale»

Qualche giorno fa, un mio nipotino piuttosto sveglio (come tutti i nipotini citati in un articolo) mi ha detto: «Nonno, ho cercato il tuo libro su Google». E l’hai trovato? «Sì, e sotto c’erano tanti commenti». E cosa dicevano di bello? «Ti insultavano tutti», ha risposto il monello quasi mortificato da un nonno così oltraggiosamente impopolare. Il padre (mio figlio) ha cercato di metterci una pezza: «C’era pure un commento favorevole». Sì, ha confermato il saputello (che, sospetto, faccia i compiti con l’Intelligenza artificiale) spiegandoci che il buon samaritano viene generato con apposito algoritmo, per esigenze di politically correct.
Avevo immaginato che il mio libretto Antifascisti immaginari stesse avendo qualche problema sulla Rete dall’espressione desolata che mi accoglieva nelle stanze dell’editore alla domanda: «Come va la vita?». Eppure le vendite andavano piuttosto bene grazie soprattutto al titolo provocatorio che nei dibattiti pubblici faceva dire a quelli di sinistra: «Non l’ho letto e non mi piace»; e a quelli di destra: «Non l’ho letto ma mi piace». Nel consegnare il testo ero consapevole che il cortocircuito tra l’espressione «Immaginari» subito dopo «Antifascisti» sprizzasse le scintille adatte ad attizzare ogni finta suscettibilità progressista. Nello stesso tempo la somma di quelle due parole titillava quei tizi destrorsi a cui al solo sentir parlare di antifascismo, immaginario o meno, vengono le bolle. Di solito, osserva Guia Soncini, assai ferrata nel ramo, l’obiezione è: se non si capisce è colpa di chi scrive, mica di chi legge. «Era una regola sensata, quando chi leggeva sceglieva di leggere, e chi scriveva lo faceva rivolgendosi ai lettori che sceglievano di leggerlo – e comunque all’epoca, se al lettore non piaceva quel che leggeva, in genere smetteva di leggere. Adesso, chi legge passa di lì: passava, ha letto, non ha gradito, chiede la tua testa (se ti va male; se ti va bene, si limita a insultarti) poggiando un annoiato dito sullo schermo del telefono tra una partita a Candy Crash e l’altra» (L’era della suscettibilità).
Quanto agli insulti social non posso dire che mi lascino indifferente. Per ragioni anagrafiche (provengo dal giornalismo neolitico della macchina da scrivere) non frequento l’universo social che considero un mondo ostile e misterioso, un formicolante nido di insetti molesti nascosto sotto una pietra. Io quel sasso preferisco non sollevarlo: mi scoccia dare confidenza a degli sconosciuti che si fanno forza dell’anonimato per aggredirti con le peggio cose. Ammiro, sul serio, coloro che dedicano tempo e pazienza a rispondere a certi squilibrati per ricavarne click e relativi introiti.
Fin qui, direte, niente di nuovo: i giornali traboccano di commenti sulle infamie alle quali sono sottoposti personaggi più o meno pubblici aggrediti dalle cavallette virali. Infatti, lo scopo di questo mio modesto scritto dedicato ai “Cattivi” consiste nel ribadire che anche il cattivo più stronzo può essere utilmente sfruttato a scopo auto-promozionale: perfino lo sterco bovino produce biogas da utilizzare come carburante, figuriamoci gli effluvi emessi da un qualunque frustrato da tastiera («Dal letame può nascere un fior…»).
Per rendere più chiaro il concetto, citerò il recente caso di quella brava giornalista trascinata davanti all’Inquisizione un tanto al chilo per avere indossato un abito che metteva in risalto, giustamente, il suo gradevole aspetto. Fortunatamente l’indignazione degli squilibrati ha prodotto uno sdegno di segno uguale e contrario, con ampia e solidale risonanza mediatica a favore della collega: intervistata sui maggiori quotidiani e nei talk più popolari il suo passaggio da vittima a eroina è stato quasi naturale. Del resto, come ci dicevano nella nostra infanzia quando facevamo la lagna per ottenerne qualcosa in cambio: Ciccio mi tocca, toccami Ciccio.
Un breve passo indietro. Siamo al Salone del libro di Torino del maggio scorso. Evento a cui tutti gli autori ambiscono partecipare (anche i più scontrosetti, non date retta) e che dunque costituisce la più esemplare dimostrazione di come la cultura possa essere terribilmente egualitaria. In quelle radiose giornate, lungo i corridoi del Lingotto, e a cena negli hotel pluristellati, si incrociano, democraticamente, celebrate firme da un milione di copie (presunte) con scrittori, diciamo così, meno fortunati. Può capitare che la star da venti ristampe, svettante in cima ai libri più venduti (alcuni lo portano scritto sulla fronte a caratteri luminosi), nel concedersi benignamente a un saluto ti chieda sibilando: e tu perché sei qui? Domanda al gusto di botulino nei confronti della quale se per caso sei apparso come un passante disperso nella nebbia nelle parti basse della classifica (e per non più di un paio di settimane) puoi solo fare il vago con un imbarazzato: sono venuto a dare un’occhiata (anche se un gruppetto di parenti e amici cari ti attende nell’intimità della sala Indaco, giù a destra sotto le scale). Cosa c’entra tutto ciò con il veleno social? Ci arrivo. Memore della brava giornalista messa in croce dalle iene dattilografe, ho detto al mio editore: se tu avessi davvero a cuore il mio successo avresti gettato benzina sul fuoco dell’odio social alimentando una campagna contro Padellaro difensore dei fascisti (anche se il mio libro è profondamente antifascista vale sempre la regola del non l’ho letto e non mi piace). Forse, ho insistito, con una bella polemica sui giornali avremmo riempito la sala da mille posti. Ok, ma tu sei pronto a mostrarti su Instagram con il braccio destro teso tipo Musk?, ha replicato il bastardo. Vorrà dire che la promozione del prossimo libro l’affiderò a mio nipote.
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