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 2025  agosto 18 Lunedì calendario

Intervista a Luciano Tovoli

Dietro c’è il (tentato) delitto di un film.
Dietro c’è il mistero. Il mandante. Le trame, quelle più oscure e imprevedibili. C’è la politica, all’italiana. Il depistaggio. Il boicottaggio. Fascismo, antifascismo, il colonialismo, il comunismo e affini. Dentro c’è un film, Il generale dell’armata morta, con protagonisti Marcello Mastroianni e Michel Piccoli, acclamato dalla stampa francese, Le Monde e Le Figaro in primis, uscito in Francia nel 1983 in 350 sale.
Non in Italia.
Da noi non lo conosce (quasi) nessuno.
Il regista è Luciano Tovoli, premiato direttore della fotografia – nel curriculum Professione reporter di Michelangelo Antonioni – nel caso de Il generale dell’armata morta era alla sua prima (e unica) esperienza dietro la macchina da presa.
Come è nato, maturato e si è concluso il (tentato) delitto, Tovoli lo ha scoperto in questi giorni grazie a un libro sorprendente, scritto da Antonio Caiazza, giornalista della Rai, dal titolo Una storia scomoda (in libreria il 5 settembre).
Da anni Antonio Caiazza studia le vicende dell’Albania e mentre cercava di capire altri perché e altri per come legati al suicidio di Mehmet Shehu quando era primo ministro albanese (17 dicembre 1981), si imbatte in una cartella denominata “rapporti culturali”. La apre. La sfoglia. La studia. E scopre che l’ambasciatore italiano del tempo in Albania, Gian Paolo Tozzoli, scrive allarmato al ministro degli Esteri Emilio Colombo, perché un gruppo di italiani intendeva girare un film tratto dal libro di un celeberrimo romanziere albanese, Ismail Kadare; romanzo in cui si narra la vicenda di un generale italiano e di un prete controverso, in missione in Albania, per recuperare le ossa dei militari morti durante la Seconda guerra mondiale.
Per l’ambasciatore, per il ministro e per Sergio Romano, al tempo direttore generale delle relazioni culturali, era troppo, o almeno inopportuno.
Ed ecco il carteggio, ecco, gli scambi, le sfumature, le richieste, il confronto con gli omologhi locali, allora non così amici, non così soddisfatti dell’ingerenza nostrana (a loro il film interessava). Ecco la verità scoperta, finalmente, da Tovoli: “Per quarantacinque anni ho creduto che tutta la colpa fosse del regime albanese. Invece era solo una questione italiana”.
Ed è cinema nel cinema.
Insomma, lei era al buio.
«A quel tempo siamo stati cacciati dall’Albania con la scusa che non potevano offrirci i mezzi necessari. Non sapevamo dell’intervento del governo italiano».
Alcun sospetto.
«Zero. Anzi: il ministero della Difesa ci aveva concesso la disponibilità di una nave militare, con alcune scene girate a La Spezia; aggiungo: il comandante della nave era talmente affascinato dalla possibilità di avere Mastroianni a bordo da chiederci di restare un giorno in più: “Ma non ci serve”. “No, no, così mangiamo insieme”».
Mastroianni apriva le porte.
«Fondamentale. Kadare non intendeva concederci i diritti del libro, per lui, per la cultura albanese, noi italiani eravamo tutti fascisti; (pausa) ecco, anche in questo caso mi spiego delle cose…».
Condivida.
«Kadare era uno scrittore notissimo in Europa, in odore di Nobel, in Francia un numero uno, con tutte le sue opere pubblicate. In Italia, no. Niente. Per questo con Mastroianni condividevamo l’intenzione di farlo scoprire nel nostro Paese».
Quindi.
«Ero con Marco Ferreri sul set di Ciao Maschio, lo stesso Ferreri ripeteva: “Sei bravo, devi girare un film”. In quei giorni leggo il romanzo di Kadare e ne parlo con Mastroianni: “Nel caso ti andrebbe di interpretare il generale?”. “Sarebbe un regalo”. Allora prendo foglio e penna: preparo un documento da utilizzare come presentazione. Raggiungo Parigi, chiedo a un’amica di incontrare Kadare: “Voglio prendere i diritti del libro”. “Impossibile, vi odia. E ha un caratteraccio”».
Era vero?
«Eccome. Abbiamo discusso di storia, di fascismo, io a replicare che gli italiani non erano tutti con il duce; rispondeva “a Roma, comunque, non c’è niente”. Fino a quando gli ho parlato di Mastroianni: lui affascinato e incredulo all’idea, a quel punto gli ho mostrato la lettera firmata. “È falsa”. “Come falsa?!”. Per convincerlo della bontà sono stato costretto a chiamare la mia amica, celebre editrice, e lei ha garantito l’autenticità».
A quel punto?
«Ha accettato. Così ho firmato un assegno, nonostante non avessi una lira, e uscito dalla riunione ho chiamato Mastroiani: “Marce’, ci sono riuscito, ma versa i soldi o sono rovinato”. “Non ti preoccupare”».
Tutto liscio.
«Di più: raggiungo Piccoli, con il quale avevo lavorato, gli racconto il progetto e lui s’illumina: “È un libro fantastico: oltre a interpretare il cappellano, trovo pure i soldi in Francia”».
Caso raro.
«Di solito uno impazzisce per trovare gli attori e i soldi, io ho fatto in un attimo; (pausa) torno a Roma, vado da Ferreri, gli racconto dei diritti: “Bravo”. “Ci sarà Marcello”. “Benissimo”. “E anche Piccoli”. “È uno stronzo: se c’è lui, non ci sono io”».
Non erano amici?
«Sì, ma in quel periodo Marco si sentiva abbandonato perché Michel non aveva accettato l’ultimo film».
Ferreri non aveva un carattere semplice.
«Tagliava tutto con l’accetta. Ma era la sua qualità; (pausa) qui si apre la seconda fase di dubbi: vado alla Gaumont Italia (casa di produzione) gli presento il progetto e mi assegnano 300 milioni di lire. Iniziamo i sopralluoghi in Albania».
L’Albania di quegli anni.
«La pista dell’aeroporto era la stessa di quando erano sbarcati gli statunitensi: srotolavano una lingua gommata lunga due chilometri; l’unico collegamento con l’Italia era un aereo rumeno, con scalo a Tirana una volta la settimana; lungo la strada c’erano le casematte».
Ancora?
«Ne avevano costruite delle altre; lungo il tragitto per Tirana guardo Kadare: “Ma avete sempre ’ste cose?”. “Lucia’, non fare domande: sei giovane, capirai”. Avevamo la stessa età».
Prospettive.
«Sì, come la tendenza alla bugia».
Cioè?
«Da uomo di sinistra non la tolleravo, mentre loro, cresciuti sotto un regime, non toccavano mai la verità».
Voi controllati.
«Ci assegnavano sempre e solo accompagnatori e autisti che capivano tutto, in particolare un professore di latino, uomo adulto, cortese, con il quale avevo stretto un bel rapporto».
E…
«Dopo sei mesi torniamo in Albania, avevo acquistato una bella edizione della Divina Commedia da regalare al professore. Chiedo di lui: “Dov’è?”. “È partito in missione”. Mi sembrava impossibile. Raggiungiamo l’albergo, l’unico della città, e di notte sento bussare. Apro. E mi trovo davanti il professore, incappucciato, irriconoscibile. “Che succede?”. “Abbiamo legato troppo, mi hanno sostituito. Ma un amico mi ha informato del vostro arrivo”. Gli consegno la Divina Commedia . Non l’ho più visto».
Altro film nel film.
«Anche i sopralluoghi lo sono: andiamo in giro con la jeep, vedo un villaggio. “Bello, andiamo lì”. “No, non c’è niente”. “Quelle sono case”. “No, sono cataste di legna”. O passiamo davanti a un carcere, vediamo pure i carcerati e loro: “Sbagli, non ne abbiamo”».
La sceneggiatura.
«Ci ho lavorato sei mesi, ho smontato il libro e scritto da capo, poi ho raggiunto Piccoli a Parigi e insieme siamo andati da Jean-Claude Carrière, sceneggiatore di Luis Buñuel».
Altro mito.
«Aveva realizzato una factory: ogni stanza un gruppo che lavorava, lui al centro. Un’immagine stupenda; insomma, Carrière decide di scriverci una lettera sull’amore da far leggere ad Anouk Aimée fuoricampo. Quella scena l’ho girata ed è un grande momento».
Com’era il vostro rapporto con Piccoli?
«Di grande amicizia, ma Michel aveva costruito il suo fascino, anche di attore, su una certa doppiezza».
Esempio.
«Per anni ha coltivato il sogno di diventare regista, il Generale era chiaramente l’occasione giusta, ma non ha mai trovato il coraggio di dirlo; (ci pensa) alla fine del film, al momento del montaggio, vado a controllare e non capisco perché una scena era tanto lunga. Chiedo alla montatrice, lei risponde vaga. Allora coinvolgo il custode: “Che è passato Piccoli?”. “Una volta sola…” Non era una volta sola».
Avete litigato?
«No, il film è nato grazie a lui e a Mastroianni».
Com’era Mastroianni?
«L’opposto di Piccoli: coinvolgeva tutti con la sua allegria, il suo piacere per la vita, per il cibo, per i ristoranti; (pausa, torna al film) tutto è stato stoppato veramente all’improvviso».
Come?
«La troupe era a Tirana, io a Roma per organizzare gli ultimi dettagli; mentre ero a cena mi chiama l’aiuto regista: “È finita, non ci danno i camion, sostengono che gli servono per la raccolta delle mele. Ci stanno cacciando, vogliono che andiamo in aeroporto”».
All’improvviso.
«Pur di far decollare parte della troupe, hanno costretto alcuni albanesi a scendere dall’aereo».
Voi non avete mai sospettato un coinvolgimento italiano.
«Davvero, l’ho scoperto con il libro. Con il libro ho capito le discussioni interne, le pressioni sugli albanesi, i dubbi».
Gli albanesi erano contenti.
«Secondo loro uscivano benissimo dalla storia».
L’ambasciatore Tozzoli non era per voi uno sconosciuto.
«Aveva invitato me e Piccoli a cena e conosceva bene il libro; il film è uscito in Francia, è andato bene».
Mentre in Italia.
«Altra curiosità su cui sarebbe interessante indagare: il Generale è incappato nel fallimento della Gaumont Italia; oltre al mio erano bloccati pure i film di Fellini e Monicelli: per loro il curatore ha sbloccato subito la situazione. Il mio è rimasto fermo sei anni».
Curioso.
«La televisione l’ha mostrato mezza volta, eppure c’è Mastroianni; il mio è un film sulla retorica militare e a me questa storia della patria e dei patrioti mi rompe tanto le scatole: non ho capito perché i patrioti non devono essere i partigiani, ma solo i fascisti che sparavano sui partigiani».
Il film dove l’avete girato?
«Dopo lo stop ho deciso di spostare tutto in Abruzzo, nonostante Piccoli inizialmente non volesse. Si è convinto dopo il primo sopralluogo: “È perfetto”».
L’Abruzzo era perfetto pure per l’appetito di Mastroianni.
«(Ride) Appena arrivava sul set poneva sempre la stessa domanda: “Dove annamo a magna’ stasera?”; poi non voleva che stessi vicino alla macchina da presa: “Smettila de sta lì, il regista si deve occupare di altre cose; mi devi stare vicino, devi chiacchierare con me”. “Marce’, di cosa parliamo?” “Di quello che ti pare, anche della Roma, di politica…”».
Piccoli sul set?
«Aveva la fissa di venirmi a prendere ogni mattina in albergo e di parcheggiare la macchina in prima fila e con il muso rivolto verso l’uscita. “Michel, dobbiamo stare qui tutto il giorno, non serve”».
Nel cast un giovane Castellitto.
«Cercavo un ragazzo per il ruolo di un albanese esperto in sepolture. Per il provino si presenta, allora non era conosciuto, e mi colpisce per i suoi modi educati, tranquilli, quasi remissivi. È stato bravissimo. Eppure si è confrontato con due mostri sacri».
Emozionato.
«In una scena Castellitto doveva alzare una medaglia, ma per l’agitazione gli tremava il braccio, così Marcello gli ha tenuto il gomito».
Sempre nel cast: Anouk Aimée.
«Giustamente si sentiva alla pari di Mastroianni e Piccoli. Ma aveva un problema: i gatti lasciati a Parigi. Chiamava dieci volte al giorno per sapere come stavano».
E poi che cos’è successo?
«Due volte ho presentato a Roma il film, ma per conto mio».
Avrà pensato ai se e ai ma legati al film.
«È bello sapere la verità, anche se dopo quarantacinque anni, ma sono felice così. Il mio lavoro di direttore della fotografia è meraviglioso, mi ha offerto delle soddisfazioni enormi, mi ha permesso di girare il mondo. Ho lavorato con dei registi straordinari…».
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