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 2025  agosto 17 Domenica calendario

Intervista ad Andrea Bonomi


«Il problema dell’Italia è la liquidità». Lo dice Andrea Bonomi, fondatore e presidente di Investindustrial, gruppo d’investimento con 17 miliardi di capitale raccolto e 30 società partecipate, di cui 19 controllate italiane. «Grazie alle riforme fatte in questi anni, il Paese oggi può ritrovare la crescita degli anni ’50-’60 ma serve il capitale privato».Avete appena varato un aumento di capitale da 75 milioni per Eataly, qual è la vostra strategia?«L’ambizione è globalizzare Eataly il più velocemente possibile. Manterremo i mega store tradizionali, ma vogliamo far evolvere il marchio con formati più piccoli che in questo momento hanno successo. Abbiamo aperto due Eataly Caffè a New York e prevediamo 8 nuove inaugurazioni entro l’anno. Aeroporti e stazioni rappresentano un mercato mondiale, pensiamo che il brand possa crescere più in fretta nei punti da cui transitano milioni di persone».Dalla fondazione, Investindustrial ha investito in circa 300 aziende. Qual è il vostro protocollo operativo all’ingresso in una società?«La differenza fra Investindustrial e un private equity classico è che noi investiamo soprattutto in aziende a conduzione familiare. Spieghiamo all’imprenditore che prima era da solo e ora può contare su 250 professionisti per supporto finanziario, di data analytics e strategia. La maggior parte dei fondi si limita a erogare il denaro, noi cerchiamo di salvaguardare l’approccio imprenditoriale italiano e mantenere nell’azionariato o nella gestione chi ha immaginato il business dall’inizio. Eataly ne è un esempio, Oscar Farinetti è rimasto socio. Lo stesso è avvenuto con la famiglia Ferraioli per La Doria e con la famiglia Piovan».Con Eataly vi siete assunti anche un grande rischio.«Noi misuriamo quello che gli americani chiamano il “white space”, cioè lo spazio bianco, il potenziale. Nel caso di Eataly sono gli Stati Uniti, dove c’è un amore immenso per il made in Italy. La maggioranza dei margini di produttività di Eataly proviene da lì, ed è lì che puntiamo a migliorare. Il cliente di New York non è diverso da quello di Dallas, semplicemente non ci conosce ancora. Vogliamo far crescere anche i prodotti a marchio proprio, come pasta e salse».Molto del vostro business è made in Italy, come incidono i dazi?«Siamo bilanciati. Abbiamo 48 impianti in America con 9 mila persone. Dazi del 15% sono gestibili. Il 40% di Investindustrial è in America, il nostro mercato principale».È un buon momento per investire in Italia?«Grazie alle riforme fatte in questi anni, l’Italia oggi è nelle condizioni per ritrovare la crescita degli anni ’50-’60. Quest’anno arriveremo a investire nel Paese più di 2 miliardi di euro. L’Italia deve approfittare del fatto che altri mercati hanno problemi e non deve perdere questo momento in cui è considerata affidabile dall’estero. Penso che il sistema fiscale italiano sia all’altezza degli investimenti internazionali e l’evoluzione della certezza del diritto è tale per cui oggi molte società, anche estere, potrebbero avere la sede in Italia. Lo abbiamo fatto, ad esempio, con Nexture, nuova holding dell’ingredientistica, che ha stabilito la sede a Milano nonostante il business partisse dalla Germania».In quali operazioni pensate di essere riusciti finora?«Per fare alcuni esempi, fino al nostro arrivo, nel 2021, La Doria fatturava 800 milioni, oggi la piattaforma di cui fa parte ha 3,5 miliardi di ricavi. Da quando siamo in Guala Closures, abbiamo chiuso acquisizioni in Cina, India e Grecia. Con il nostro supporto Guala ha 37 impianti nel mondo».A queste aziende servono capitali stranieri?«Il grosso problema dell’Italia è la liquidità e il capitale privato ne è una soluzione. Proteggere la finanza in Italia è fondamentale. Guardando alla Borsa, le aziende che canalizzano la maggioranza dei capitali sono poche rispetto alla totalità».Perché scegliete aziende familiari?«Amano il loro prodotto e sono vive. Spesso alle società manageriali manca il fuoco. Noi cerchiamo di entrare nelle aziende con il vantaggio di chi conosce il potenziale dell’Italia in giro per il mondo, portando capitali internazionali per aiutarle a globalizzarsi. Vogliamo dare agli imprenditori italiani la forza di andare nel mondo».Seguite il modello anglosassone di private equity. Investite in aziende non quotate e le fate crescere fino a portarle in Borsa?«Sì, ma noi intendiamo la quotazione sul modello americano. In Italia la quotazione è considerata il punto di arrivo. Per noi vuol dire continuare a crescere e dare al mercato ragioni per investire. C’è poi una cosa che fatico a spiegare: è come se in certe operazioni investissimo usando l’immaginazione, pensando che ci sarà un mercato».Come faceva sua nonna Anna, che inventò Postalmarket negli anni ‘60, decenni prima che arrivasse l’e-commerce. Quale eredità imprenditoriale le ha lasciato?«Aver conosciuto una donna così regala un coraggio di investire che viene dal dna, non dal calcolo. Fino a 90 anni è stata un’imprenditrice coraggiosa e piena di idee. Quello che mi ha trasmesso è il potenziale degli italiani di conquistare il mondo».Quali opportunità di crescita vede per l’Italia?«Oggi per avere successo un’azienda deve essere in America, Medio Oriente e Asia. Per l’Italia, robotica, meccanica e tecnologia applicata, industria medicale sono il futuro. Bisogna investire nel globalizzare e nella tecnologia». —