la Repubblica, 17 agosto 2025
Intervista a Reinhold Messner
Marco Confortola non è tra i grandi alpinisti. Non lo seguo: quello che fa, o che dice di aver fatto, non mi interessa.
Se io parlo di lui, lo accredito presso un’élite a cui non appartiene. Dico però che Simone Moro, che al contrario è un grande alpinista, ha ragione: se uno dichiara di aver raggiunto la vetta di un Ottomila, ha il dovere di esibire le prove. Se queste mancano, la presunta ascesa resta un fatto personale: per la storia dell’alpinismo non esiste».
Reinhold Messner, 81 anni tra un mese, è il simbolo mondiale dell’arrampicata libera, dello stile alpino e delle grandi ascese in Himalaya. È stato il primo, 39 anni fa, a salire sui 14 Ottomila del pianeta e a scalare l’Everest da solo e senza ossigeno. «Per me – racconta – la polemica sugli Ottomila contestati a Confortola non deve nemmeno esistere. Lui, sulle vette che dice di aver toccato, è andato in un modo privo di valore: come un turista, non da alpinista».
Lo scontro Moro-Confortola sulle false scalate agita però la comunità alpinistica internazionale: crede che non conti più, per gli Ottomila, ottenere il certificato di vetta ed essere inseriti nel registro dell’Himalayan Database?
«I record vanno certificati. Se solo tu dici di aver corso i cento metri in otto secondi, per la storia dello sport non conta e non ha senso attaccare chi dubita. Rispondere che è la parola di uno contro quella dell’altro equivale a non rispondere. L’alpinismo però non è uno sport: resta l’arte di sopravvivere in un ambiente dove è più facile morire. Per questo non voglio nemmeno parlare di Confortola: se anche provasse di aver raggiunto i sei Ottomila che gli vengono contestati, per me non avrebbe fatto nulla perché non considero il suo alpinismo».
Cosa vuole dire?
«Nelle ascese estreme oggi non conta dove vai, ma come ci vai. In cima all’Everest ogni anno arrivano 600 persone. A centinaia toccano la vetta di un Ottomila. Come Confortola, si portano dietro l’ossigeno e seguono una pista già battuta e attrezzata. Si fanno accompagnare in elicottero fino a 6500 metri: allora sarebbe corretto dire di aver salito un Duemila, il dislivello realmente coperto a piedi. Siamo nel campo del turismo di massa, non dell’alpinismo tradizionale».
Definisce Confortola, guida alpina e membro del soccorso alpino, un turista d’alta quota?
«Non lo definisco, mi rifiuto di parlare di lui e di entrare in una polemica priva di spessore, che rischia di inserirlo in una dimensione che gli è estranea. Io seguo l’alpinismo tradizionale,dove contano uno stile elegante e un certo modo di muoversi.
Confortola appartiene all’epoca degli Ottomila su pista: quella dei turisti, non degli alpinisti. Non posso contestare il nulla e associare il mio nome al suo».
Ma salire sulla vetta di tutti i 14 Ottomila, fatto che Confortola rivendica, resta un’impresa?
«Di per sé, no. Prendiamo il K2: nel 1954, quando per la prima volta gli italiani sono arrivati in cima, è stato alpinismo. Oggi dipende da come e quando sali, lungo quale via. Per questo non perdo nemmeno un secondo per sapere se Confortola ha o no le prove dei suoi dichiarati Ottomila: non mi interessa. Se invece un alpinista mi dice che ha salito la parete ovest del Makalu, inviolata, lo chiamo per farmi spiegare i dettagli. L’alpinismo è un’arte dinamica, non unaprofessione immutabile».
Ma qui torna in scena uno scontro tra alpinisti dal sapore antico: Confortola è vittima dell’invidia di Moro, o quest’ultimo ha ragione nel chiedergli di esibire le prove?
«Entrare nello scontro equivarrebbe ad accreditarlo come praticabile. Moro ed altri alpinisti veri, come Nives Meroi e alcuni sherpa nepalesi, hanno ragione quando dicono che se uno fa qualcosa deve poter spiegare come ci è riuscito. Non vedo come Moro, impegnato nelle grandi invernali, possa invidiare Confortola. Il punto resta la differenza tra alpinismo e turismo. Salire incolonnati lungo una pista è turismo. Un turista in vetta ai 14 Ottomila resta un turista: non diventa un alpinista».
Perché allora tanto clamore attorno a Confortola?
«Perché l’industria del turismo dimassa in alta quota ha interesse ad alimentare una anacronistica narrazione epica degli Ottomila alla Confortola. Lo cito come esempio generale e non lo giudico. Se sali la parete est del Manaslu sei nell’alpinismo, se arrivi con due portatori in cima al Gasherbrum I, no. Puoi anche acquistare i certificati di vetta, ma nella storia dell’alpinismo non entri».
Ma lei, tra il 1970 e il 1986, non ha partecipato alla corsa per arrivare primo sui 14 Ottomila?
«Non ho mai fatto gare e non mi sono mai curato di record. Le spedizioni commerciali non mi hanno mai attratto. Il fattore importante per me è sempre stato lo stile, l’esplorazione, la scoperta di luoghi ignoti. Mi sono mosso dopo l’era dell’alpinismo della conquista, rivoluzionando quello della difficoltà. Accetto di parlare di Bonatti e di Cassin con Moro e la Meroi: con Confortola non posso».
La disturba il fatto che Confortola si giustifichi dicendo che anche a lei è stata contestata la vetta dell’Annapurna?
«Usa il mio nome per sentirsi importante. Non basta paragonarsi a qualcuno per appartenere alla sua categoria. Non ho tempo per occuparmi di ciò che dice: per me non è un soggetto che appartiene all’alpinismo tradizionale.
Confermo invece che, per fattori legati a clima e ambiente, cime e creste cambiano ogni giorno».
C’è una lezione da imparare in questa polemica?
«Smetterla di ricorrere all’elogio della prestazione per dominare la narrazione alpinistica, distorcendo la cultura originaria dell’alpinismo tradizionale. Sventolare bandiere o esibire primati, tanto più se non dimostrabili, contribuisce a lasciar distruggere la natura di alta montagna, sconvolta dai tour di massa. Le esperienze sono un patrimonio personale: se lo mettiamo all’asta, svanisce».