la Repubblica, 17 agosto 2025
Trump e Putin si allineano in una visione che segna il tramonto dell’era democratica. Lasciando all’Europa la difesa del diritto
Chi cercava la tregua in Alaska, con un cessate il fuoco per fermare le bombe e preparare un vero negoziato tra Russia e Ucraina verso la pace, ha trovato l’impero. Si è mostrato per la prima volta a viso scoperto nel summit di tre ore tra Donald Trump e Vladimir Putin, in questo tramonto politico di una lunga stagione che porta il nome di democrazia. L’impero americano che parla per sé, fa solo ciò che gli conviene, non riconosce i valorie gli ideali di una tradizione di libertà, punta sui diritti della forza piuttosto che sulla forza del diritto e si considera sciolto dai vincoli di ogni alleanza. E l’impero russo, che recupera dal passato zarista e bolscevico lo spirito di potenza, lagrandeur perduta, la politica come dominio, il territorio come protezione, l’abuso come supremazia. I due imperatori si sono riconosciuti a vicenda, compiacendosi e intendendosi.
Ehanno gettato le basi per una relazione bilaterale che può dare risultati sul pianoeconomico, commerciale e persino sul controllo degli armamenti. Ma questo patto a due appare incapace di controllare la guerra d’Ucraina, che era la vera posta in gioco sotto gli occhi di tutto il mondo, dopo che il marketing politico della Casa Bianca e del Cremlino aveva fatto crescere a dismisura le attese per un miracolo trumpiano. Trump torna dal vertice con le mani vuote. Putin è già ripartito per Mosca con il bottino pieno.
Poiché in diplomazia la forma è sostanza, la simbologia che ha avviluppato il vertice ha deciso fin dall’inizio il tono, il metodo e la portata dell’incontro. Putin, inseguito dal mandato d’arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, non tornava in America da dieci anni e non incontrava un presidente americano dal 2021, cioè prima dell’aggressione russa all’Ucraina. L’invito di Trump per un dialogo a due senza terzi incomodi, l’applauso che gli ha rivolto il leader americano mentre lo attendeva, il passaggio cameratesco su The Beast, l’auto presidenziale, hanno immediatamente trasportato il summit fuori da ogni protocollo e soprattutto fuori dalla storia di questi ultimi anni, rigenerando la leadership internazionale di Putin, purificandolo da qualsiasi macchia davanti al diritto e assolvendolo da tutti i peccati politici. Il presidente della Russia era perfettamente consapevole di questa riconquista reputazionale che incassava senza pagare alcun dazio: mentre raggiungeva Trump, ogni suo passo sulla guida rossa d’onore sembrava liberarlo da un interdetto, da un giudizio, da una riprovazione, per arrivare davanti al suo interlocutore completamente amnistiato, redento e rilegittimato, come certifica la stretta di mano amichevole tra i due leader. Uno a zero per Putin, dunque, prima ancora di incominciare. L’assenza di Zelensky, in un vertice che aveva al centro la crisi ucraina, è un altro punto per il capo del Cremlino. Nel nuovo ordine mondiale, solo gli imperatori hanno l’autorità, la perizia e dunque l’autorizzazione per sbrogliare i nodi del mondo, anche se li hanno costruiti con le loro mani e persino se riguardano la sovranità altrui. La sedia vuota di Zelensky è un’umiliazione storica e politica per l’Ucraina, ma è soprattutto la conferma che la neo-logica imperiale determina scelte imperialiste, elevando gli imperatori al ruolo di plenipotenziari del mondo e riducendo tutti gli altri soggetti al rango di sudditi e vassalli. Lo stesso trattamento riservato a Zelensky ha escluso dalla discussione con Putin l’UnioneEuropea e i leader dei principali Paesi del nostro continente. Anzi, per la prima volta un presidente americano ha parlato di noi come di una categoria anomala, sopravvissuta alla storia, ancora alle prese con gli ideologismi della democrazia e del diritto: «gli europei», un mondo a parte distinto da quell’identità congiunta nell’Occidente che faceva di Europa e America una comunità di destino all’insegna (spesso tradita, e tuttavia sempre riconfermata) della libertà e dei diritti.
Trump si è spogliato dei paramenti sacri del leader dell’Occidente che vestiva con impaccio, perché comportano dei vincoli, e ha cercato la sua maestà altrove, solitaria e autocratica. La riduzione della sovranità istituzionale e delle alleanze internazionali all’autorità di una sola persona fa sì che non ci siano più ideali di riferimento, valori guida, principi universali e irrinunciabili come modello e indirizzo, perché la realtà viene di volta in volta interpretata e risolta dall’istinto estemporaneo del leader, senza un canone riconosciuto. Così il presidente americano è arrivato in Alaska convinto di dover e poter ottenere un cessate il fuoco, ha abbandonato l’idea nel corso del vertice davanti alla suggestione degli argomenti di Putin ed è tornato alla Casa Bianca convertito alla proposta russa di lavorare direttamente ad un accordo di pace. Sembra un passo avanti verso la risoluzione del conflitto, ma è piuttosto la conferma del via libera per Mosca nella sua avanzata militare in Ucraina mentre si parla di negoziato: una mano tratta, l’altra mano spara, come ha illustrato con chiarezza l’ex presidente Dimitri Medvedev: «Il vertice d’Alaska ha dimostrato che un negoziato è possibile senza precondizioni e contemporaneamente alla continuazione dell’operazione speciale».
Mosca aveva dunque un terzoobiettivo, dopo la riconsacrazione internazionale di Putin da parte del presidente Usa e l’esclusione di Zelensky: la continuazione della guerra. E l’ha ottenuta. La Russia ha mostrato a Trump un ventaglio molto ampio di negoziazioni possibili e di intese raggiungibili, riducendo l’Ucraina da piatto principale a ingrediente del menu. «Il mio traguardo è riportare Putin a un tavolo di trattativa – ha spiegato il Capo della Casa Bianca – non mediare un accordo per conto dell’Ucraina». Questo schema totale, ambizioso e vago (dall’economia al commercio, alle terre rare, all’industria, all’energia, al nucleare) è stato confermato sia da Putin che da Trump nella conferenza stampa congiunta senza domande, nella quale non si è parlato del cuore del problema, cioè la sovranità dei territori occupati, perché «gli europei» avevano spiegato al presidente americano che solo l’Ucraina può decidere sul destino delle sue terre: un principio fin troppo ovvio, ma che oggi è necessario ribadire, perché non c’è spazio di autonomia dentro l’impero. Dunque che sarà delle province ucraine del Donbass e della Crimea, circondate dal silenzio sospetto dei due leader?
È chiaro che Putin ha fatto ricorso alla scuola diplomatica di Gromyko e di Molotov, allargando il quadro per illustrare a Trump un percorso che può portare alla fine del conflitto, ma comporta sacrifici e obbligazioni per l’Ucraina, e dunque ha bisogno del concorso di Zelensky e della Ue. Una pace possibile, potremmo dire, ma con un costo interamente a carico di Kiev. Ecco perché i due presidenti non hanno rivelato i loro piani, limitandosi a citare le prossime tappe, prima l’incontro di domani tra Trump e Zelensky alla Casa Bianca, poi finalmente il vertice a tre, quindi la visita del leader Usa al Cremlino: Trump e Putin temono che il progetto definito in Alaska venga bocciato dall’Europa (che Dmitri Trenin, membro del Consiglio russo per gli affari internazionali, ha definito alla tv russa come «il nemico che vuole ostacolare il percorso di pace avviato da Mosca e Washington») e soprattutto da Kiev: ieri ilKiev Independent ha definito il summit «disgustoso, vergognoso e alla fine inutile».
Ora c’è il rischio che tutta la pressione non usata da Trump nei confronti di Putin venga scaricata su Zelensky, inibito alla trattativa ma considerato già fin d’ora il responsabile della continuazione della guerra, se non accetterà il piano d’Alaska. Il leader di Kiev deve muoversi con prudenza, per non spezzare il fragile filo che lo tiene collegato a Trump, ma lunedì alla Casa Bianca deve anche verificare fin dove arriva e quale solidità ha il concorso decisivo americano al piano di sicurezza dell’Ucraina, che Trump non vuole incardinare nella Nato, preferendo scaricare la responsabilità di guida sull’Europa. E si torna infine qui, agli «europei», ciò che certamente noi siamo ma che non ci siamo mai accontentati di essere, perché alla dimensione continentale, geografica, abbiamo aggiunto quella occidentale, democratica. Oggi l’Europa è il principio di contraddizione di questa crisi, in quanto è l’ultima riserva che custodisce il principio occidentale di libertà. Bisogna essere all’altezza di questo compito e saper distinguere – anche l’Italia di Giorgia Meloni – quando sull’Ucraina si stringe una tenaglia chiamata pace.