Corriere della Sera, 17 agosto 2025
la Dc di De Gasperi
Nessuna figura – eccetto quella di Cavour – può essere accostata al ruolo che Alcide De Gasperi ebbe nella costruzione dell’Italia contemporanea.
A lui, insieme a Luigi Einaudi – primo presidente della Repubblica eletto dal Parlamento – sarebbe toccato delineare la grammatica delle istituzioni della nuova democrazia.
Protagonista indiscusso nella ricostruzione morale e materiale del Paese, De Gasperi lo fu potendosi avvalere del partito che aveva fondato, la Democrazia cristiana.
Dopo l’ubriacatura dittatoriale mascherata da nazionalismo in cui era caduta l’Italia, lo statista trentino si trovò ad avviare un nuovo ciclo della storia nazionale ed europea, con un assillo: unire il Paese, dopo una guerra che aveva profondamente diviso i territori e la sua gente, con la vicenda della cosiddetta Repubblica di Salò e, infine, la revisione dei confini – quelli ottenuti con il conflitto 1915-18 – conseguenza delle avventure belliche fasciste. E far sì che in Europa prevalesse il criterio di collaborazione su quello di potenza.
Si trovò a guidare il Paese nel momento più difficile: subire un Trattato di pace alla fine di una guerra sconsiderata, dagli effetti feroci. Trasformare un Paese impaurito e arretrato in una nazione moderna e, finalmente, autorevole, con la scelta repubblicana in cui l’Italia trovò stabilità.
Un partito – divisivo per definizione – poteva pretendere di unire l’Italia?
La missione che egli si proponeva era quella di costruire una democrazia autentica e partecipata, garantendo le libertà: le scelte del partito, le scelte del governo, erano univoche nel perseguire questa direzione.
La grandezza di De Gasperi si misura anzitutto proprio sulla sua capacità di reggere la tensione tra la parte e l’intero, tra la Dc e l’Italia, entrambe sottoposte a sollecitazioni enormi.
La Repubblica e la Costituzione avevano bisogno di tutti, mentre la stabilità di governo vedeva protagonista la Democrazia cristiana.
Fu De Gasperi a insistere che la scelta tra monarchia e repubblica fosse lasciata al popolo e non, invece, a una assemblea di eletti. Fu il voto degli italiani a tracciare il destino del Paese e del nuovo partito. II 2 giugno 1946, nelle elezioni per eleggere l’Assemblea costituente, la Dc, conquistando il 35,2% dei voti, fu il primo partito e tale rimase sino alla sua dissoluzione. Nel 1948 i voti della Democrazia cristiana furono il 48,5%, i seggi tra Camera e Senato 436 su 811. Il partito era chiamato a corrispondere a un’enorme attesa popolare, di pane, di lavoro, di libertà, di pace.
L’orizzonte di De Gasperi è riassunto nelle espressioni: libertà politica, giustizia sociale, pace. Il «trinomio» che indica nel suo discorso del novembre 1948, alle Grandes Conférences Catholiques di Bruxelles, su Le basi morali della democrazia.
Sono passaggi per niente facili e lo cogliamo nelle politiche che persegue, con una perspicua capacità di comprensione dei condizionamenti in cui esercita la sua azione.
Nella memoria collettiva più recente – a trent’anni dalla sua fine – la Democrazia cristiana viene percepita come un soggetto dall’identità sfuggente, orfano, indecifrabile, da rimpiangere genericamente o da rimuovere.
Riappropriarsi del lascito degasperiano consente di confrontarsi con la storia d’Europa, riandando ai passaggi del partito d’ispirazione cristiana più importante del Novecento.
La Dc fu «un partito inatteso». La sua affermazione nel 1946 suscitò in molti opinionisti un moto di sorpresa che si trasformò spesso nel fastidio derivante dalla incomprensione di un fenomeno, presente nel Paese profondo, che per guardare con speranza al futuro, non poteva attingere che ad antiche virtù morali e religiose.
La Dc fu un partito «nuovo» in discontinuità rispetto alla tradizione murriana e a quella popolare, pur assumendone taluni caratteri. Fu il frutto di un incontro e della valorizzazione dei tanti modi con cui importanti settori della vita italiana avevano subito, vissuto, avversato il fascismo.
La storia della Dc è la storia dell’incontro tra la maturità politica di un uomo «antico», nato nel contesto di un cattolicesimo sociale di frontiera e protagonista in istituzioni di liberalismo parlamentare, e una società la quale, crollata la mitologia di regime, si ritrovava orfana di riferimenti politici.
La Democrazia cristiana prese gradualmente coscienza, sotto la guida del leader trentino, di essere un partito «costituente» la nuova democrazia italiana, chiamato a farsi carico del governo della nazione. E fu De Gasperi dopo la vittoria alle elezioni del 1948 a impedire a un partito allora giovane e impaziente un errore strategico, optando per il rafforzamento della base di governo in modo pluripartitico, evitando di riproporre, sia pure in un contesto democratico, l’esperienza fascista, di sovrapposizione del partito allo Stato, meglio, alla Repubblica.
Fu in quel momento che la Democrazia cristiana prese atto che il rapporto tra il partito e lo Stato sarebbe stato il saggio della sua maturità politica, del suo essere «partito nazionale».
L’essere «partito di governo», sintetizzava, insieme, il superamento delle problematiche che avevano caratterizzato la presenza delle masse cattoliche sul terreno socio-economico e su quello politico nel periodo che va fino all’avvento del fascismo e il ruolo storico che si disponeva ad assolvere.
La Dc seppe essere sempre più partito capace di assumere cause non di parte bensì di interesse nazionale.
L’equilibrio politico, come noto, risiedeva nel Comitato di liberazione nazionale, e fu l’esarchia dei sei partiti, fino alle elezioni del 1948, il centro del sistema.
Le sinistre, Psi e Pci, pensavano di poter essere loro a guidare il processo di democratizzazione, con un progetto basato sulla mobilitazione delle masse popolari che in esse si riconoscevano, guardando al modello di società realizzato in Urss.
De Gasperi, invece, osservava la congiuntura internazionale – la conferenza di Yalta era già intervenuta – intuendo che l’assunzione di un ruolo di responsabilità nella direzione del governo nella fase di transizione avrebbe costituito un capitale di credibilità, rifiutando l’orizzonte della rivoluzione, puntando, invece, all’inserimento dell’Italia nell’ambito delle democrazie.
I primi governi De Gasperi chiusero la pesante vicenda del Trattato di pace, scommettendo sulla capacità della Repubblica di riconquistare un ruolo nella comunità internazionale; difesero i confini al nord e, anzi, con il patto con il ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber posero le premesse per una autonomia speciale, allora unica in Europa, che andava oltre gli stessi confini, mentre non si riuscì a risolvere la questione, dolorosa, del confine orientale. Con il rigore dei conti, l’apertura dei mercati, favorirono la ripresa economica e salvarono la lira. Guidando l’uscita del Paese dall’emergenza salvarono in sostanza l’Italia.
La visione degasperiana della nazione italiana era priva di illusioni. Partiva dal riconoscimento della sconfitta e dalla crisi morale del Paese. Prendeva atto che la collocazione alla frontiera tra i due blocchi, con la presenza del Vaticano e del più grande partito comunista d’Europa, sollecitava scelte inedite.
De Gasperi si sforzò di tradurre il prepolitico dei cattolici nel politico, portando a fattor comune del partito le radici del cattolicesimo sociale unite al nuovo metodo democratico.
La proposta politica degasperiana appariva una piattaforma aperta a più sensibilità del campo liberal-democratico. La scommessa di De Gasperi era impegnativa perché non poteva sapere quale effetto attrattivo avrebbe prodotto su quella vasta parte di elettorato moderato e laico disposto a sposare la causa democratica e, tuttavia, non appartenente alla tradizione propria al cattolicesimo.
Quello che accadde fu una sorta di inversione del rapporto di Giovanni Giolitti con l’elettorato cattolico a inizio Novecento: sono ora i cattolico-democratici a guidare la costruzione di un blocco elettorale e sociale a difesa dei valori liberali e democratici.
Il suo capolavoro ideologico fu di inserire tutte le grandi scelte economiche e diplomatiche nel solco di un anticomunismo democratico, che rappresentava la risposta che lo Stato democratico offriva contro ogni tentazione rivoluzionaria. La democrazia e la sua difesa, attraverso anche la vocazione riformista del cattolicesimo sociale, erano, per lui, l’antidoto contro questo rischio.
All’inizio degli anni Cinquanta emerge il tema degli strumenti necessari alle democrazie per proteggersi dai nemici interni. Tema non assente nel dibattito europeo contemporaneo.
All’uomo di Pieve Tesino non sfugge che «la storia dimostra che nessuna precauzione di ordine costituzionale potrebbe impedire l’avvento della tirannide se una attiva coscienza democratica non è operante nel popolo». Per De Gasperi, difendere democrazia e libertà significa «applicare la Costituzione, difenderla contro i pericoli interni che la minacciano».
Sono espressioni che riecheggiano nel richiamo del presidente Sergio Mattarella alla 50° Settimana sociale dei cattolici, a Trieste nel luglio 2024.