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 2025  agosto 17 Domenica calendario

Intervista a Vincenzo Mollica


«Il primo a parlarmi di Camilleri era stato Paolo Conte, appassionato lettore dei suoi romanzi non gialli, dal Birraio di Preston alla Concessione del telefono. Io andai a intervistarlo a metà degli anni Novanta su indicazione dell’allora direttore del Tg1 Marcello Sorgi, in occasione dell’uscita del primo libro della saga di Montalbano, La forma dell’acqua. Nella sua casa di Roma c’era questo terrazzino dove Camilleri aveva replicato una situazione quasi siciliana, una specie di salottino con delle sedie attorno dove si conversava come se a pochi passi da noi ci fosse il mare, anche se ovviamente il mare non c’era. Mi fece un’impressione incredibile, come se avessi conosciuto Walt Disney in persona: perché Andrea prima di essere un grande narratore è stato un formidabile inventore di storie. Ripeteva sempre che “la vita è teatro”».
Che cosa intendeva?
«Che la vita, al pari del teatro, non è altro che l’individuazione dei caratteri basilari dell’avventura umana. Allora gli chiesi: Andrea, se la vita è teatro, è possibile che i libri di Montalbano contengano i capitoli di un’Odissea moderna? “Può essere”, rispose. E Montalbano può configurarsi come un moderno Ulisse? “Può essere”, mi fece. Allora Camilleri è il moderno Omero? “Non è escluso”, sorrise».
E finì che come Omero…
«…ci siamo ritrovati senza la vista, sia io che lui. Affrontammo questa lunga discesa agli inferi oculistica praticamente assieme, anche se lui diventò cieco prima di me. La prima volta che ne parlammo prese l’argomento lui, con discrezione. Una quindicina di anni fa, avendo capito che cominciavo ad aver problemi, mi fece: “Vincenzino, tu come vedi?”. E io: “A sinistra per niente, a destra mi arrangio. Certi giorni c’è penombra, certi altri luce piena”. Così, le volte successive che ci incontravamo, la domanda era sempre la stessa: “Vincenzino, com’è oggi? Penombra o luce piena?”. Una volta, quando le cose per lui erano irrimediabilmente peggiorate e per me quasi, gli chiesi se poteva esistere una specie di arte del non vedere».
E lui?
«Mi rispose con la lezione che mi accompagna ancora oggi, tutti i giorni: “Sentirai i sapori e i profumi come non li hai mai sentiti. E, soprattutto, i sogni e i ricordi avranno un colore che così chiaro e limpido con la vista non lo puoi vedere”. Aveva ragione».
L’ultimo incontro.
«In questa biblioteca dove si preparavano Le conversazioni su Tiresia, l’indovino cieco. Un personaggio a cui sarei rimasto legato anche perché Sergio Staino, che aveva perso la vista anche lui, aveva accarezzato l’idea di far esibire al Club Tenco un terzetto battezzato Tiresia boys e composto da lui, me e Francesco Guccini, tutti con problemi agli occhi, che avrebbe dovuto interpretare un’unica canzone, Il pinguino innamorato. La penombra non c’era più, ormai era buio sia per lui che per me. Avendo sentito che ero arrivato, Camilleri urlò verso di me: “Vincenzino, vieni che ti voglio abbracciare!”. E io, che stavo a pochi passi: “Sempre se ci incontriamo, Andrea…”. La sua assistente ci mise l’uno di fronte all’altro. E se non risultasse troppo sarcastico, potrei dire che fu l’ultima volta che lo vidi».
Vincenzo Mollica è stato per quasi mezzo secolo l’uomo dei sogni dei telespettatori del Tg1: ha raccontato il cinema, la musica, la letteratura, i fumetti e intervistato tutti i loro miti. A quattro mani con Bruno Luverà («L’idea è stata sua, siamo gli unici che al Tg1 hanno intervistato Andrea per vent’anni»), ha scritto Amo le triglie di scoglio, sottotitolo Andrea Camilleri si racconta, in uscita per Rai Libri. Nella sua vita ha trascorso tre mesi a Formigine, in provincia di Modena, dov’è nato; quindi l’infanzia in Canada, la giovinezza in Calabria, gli anni dell’università a Milano e poi è arrivato a Roma.
Quali sono i ricordi che adesso vede coi colori più limpidi?
«Forse gli anni di Toronto, quelli dell’infanzia. Poi la mia famiglia fece il contrario di quello che fanno tutti gli altri meridionali: il nostro ultimo viaggio di sola andata fu dal Canada alla Calabria, non viceversa».
Come mai?
«Soffrivo di problemi reumatici, un medico disse ai miei genitori che non potevo più vivere al freddo. Ce ne andammo a Motticella, frazione di Bruzzano Zeffirio, provincia di Reggio Calabria: il paese di origine di mio papà, al caldo».
L’infanzia?
«Tranquilla, felice. Bellissimi gli anni del liceo classico Ivo Oliveti di Locri, che iniziò a tirar fuori le mie passioni. Ma il posto che mi ha cambiato la vita è stato Milano, gli anni alla facoltà di Legge della Cattolica, il collegio Agostinianum: lì ho conosciuto Rosemarie, che dopo cinquant’anni di matrimonio è ancora al mio fianco; lì ho vissuto mangiando a mensa panino e budino; sempre lì ho visto i primi concerti di Guccini e De Gregori, i film di Fellini al cineforum. Milano mi ha dato la possibilità di conoscere Borges e persino di fregare sotto il naso un libro a Leonardo Sciascia».
In che senso?
«Usciti da una mostra, sia io che Sciascia ci fiondammo sull’unica copia di un libro di fumetti di Al Capp. “Lo prendo io”, “veramente lo stavo prendendo io”, finì che Sciascia rinunciò: “Prendilo tu che sei più ragazzino”. A Milano nasce anche la mia grande passione per la Rai: con Rosemarie andavamo ad applaudire a gettone alle trasmissioni che facevano dagli studi di corso Sempione».
Cioè stavate nel pubblico dei figuranti pagati?
«Esattamente. All’epoca le figure più ricercate erano i giovani».
Come entrò in Rai?
«Su segnalazione di Nuccio Fava. Feci un provino con lui e col direttore del Tg1 Emilio Rossi».
L’esordio
«Il mio primo servizio? Intervistai il Dalai Lama
Lo mandarono in onda a notte fonda»
In che consisteva?
«Chiedevano che cosa sapessimo di televisione e di radio, sondavano la nostra formazione culturale».
Chi c’era con lei?
«Enrico Mentana. Io venni assunto il 25 febbraio del 1980, lui il 27. Enrico sognava di entrare nella redazione politica, io in quella degli spettacoli; ci mandarono tutti e due agli esteri».
Il suo primo servizio?
«Un’intervista al Dalai Lama. Tornai in redazione convinto di aver fatto un mezzo scoop; finì che mandarono solo due battute nell’edizione della notte».
Com’era il Tg1 dell’epoca?
«Come andare al luna park. Pensi un ragazzo di nemmeno trent’anni a lavorare in un posto dove c’erano Vittorio Orefice e Bruno Vespa, Paolo Valenti e Tito Stagno, il mitico Lello Bersani e Vittorio Citterich. Ci sarei rimasto fino alla pensione, sotto ventisette direttori: da Emilio Rossi a Giuseppe Carboni».
È andato d’accordo con tutti?
«Sarebbe stato impensabile andare d’accordo con tutti e 27. Però una cosa la devo dire: ho sempre proposto i miei servizi e le mie idee con educazione, umiltà e rispetto».
L’avranno ripagata con la stessa moneta tutti. O no?
«Non proprio. Quando non ho avuto indietro lo stesso rispetto che ho dimostrato, col massimo dell’educazione e dell’umiltà ho bussato alla porta del direttore, l’ho richiusa alle mie spalle e l’ho mandato a fare in culo».
Ci faccia un nome. Solo un nome.
«Non glielo faccio solo per un motivo: ho deciso che questa esperienza di essere mandato a fare in culo dal sottoscritto debba essere un ricordo esclusivo di chi ha avuto il privilegio di farla. Se facessi i nomi non sarebbe più così».
È mai stato sfiorato dall’idea di passare alla concorrenza?
«Una volta, quando Mentana fondò il Tg5 e mi chiese di seguirlo. A un certo punto, mentre ero quasi sul punto di accettare, mi consultai con due persone che avevano a cuore la vecchia idea di servizio pubblico: Federico Fellini e Renzo Arbore. Dopo aver parlato con loro e con mia moglie Rosemarie decisi di rimanere dov’ero. In fondo, già mi facevano fare le cose strampalate che suggerivo».
Tipo?
«Un giorno ero andato da Emilio Rossi proponendo un servizio su Pippo. “Pippo chi, Baudo?”, mi chiese lui. No, risposi, Pippo l’amico di Topolino, un grande esempio di filosofo contemporaneo».
La feriva la critica di chi segnalava che Mollica non faceva mai stroncature ma solo cose amichevoli?
«No, perché aveva una sua ragione d’essere. Io però sono fatto in un altro modo: o parlo e racconto le mie passioni; o non parlo e non racconto. Io so lavorare in un solo modo e con tre cose: passione, curiosità, fatica. Senza le prime due, non scatta la terza».
Le interviste del cuore.
«Fellini era uno che lo incontravi la mattina e tornavi a casa migliore la sera. E poi Mastroianni, Benigni, Celentano, Paolo Conte, Enzo Biagi, Fiorello. Rosario è talmente geniale che una figura come la sua non ce l’hanno neanche negli Usa. Le sue imitazioni non sono imitazioni, semmai ritratti teatrali. Non a caso Camilleri gli voleva bene».
A proposito di futuro, è vero che ha pronto l’epitaffio per la sua tomba?
«Uno celebra Vincenzo Paperica, il cronista che Andrea Pazienza e Giorgio Cavazzano inventarono per Topolino: “Qui giace Vincenzo Paperica, che tra gli umani fu Mollica”. Da quando non vedo più me n’è venuto un altro buono: “Omero non fui per poesia. Ma per mancanza di diottria”. Se però, in un futuro spero lontano, si volesse risparmiare sui caratteri della lapide, basterebbe anche, semplicemente: “Mollica, fu uomo di fatica”».