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 2025  agosto 04 Lunedì calendario

Intervista ad Andrea Vanzo


V ive da solo negli Appennini. Si arrampica sugli alberi per sentire il suono del vento. Dialoga con lupi, daini e cinghiali, e con Kiko e Nebula, i suoi gatti, oppure, quando proprio è in vena di confidenze, soltanto con due amici. Andrea Vanzo, 36 anni, pianista, compositore e produttore musicale, non parla: ascolta. Lo stesso esercizio dei suoi fan: ha 2.016.313 fruitori mensili su Spotify e altri milioni su Instagram, TikTok, Facebook. Se deve esibirsi, sceglie luoghi inaccessibili: la falesia di Su Tingiosu in Sardegna, il massiccio dello Sciliar in Alto Adige, il deserto del Wadi Rum in Giordania, la cima dell’Etna. È qui che ha girato i suoi spettacolari videoclip al pianoforte, a cominciare da Soulmate, visto 13 milioni di volte su YouTube. C’è da chiedersi come farà ad affrontare un tour che dal 7 novembre, per il lancio del suo nuovo album Intimacy Vol.2, lo porterà a Città del Messico, Guadalajara, San Paolo del Brasile, Astana, Almaty, Varsavia, Vienna, Bristol, Manchester, Glasgow, Londra, Dún Laoghaire, Stoccolma e Colonia. «Però per la prima volta partirò dalla mia terra: Casalecchio di Reno».
È nato a Bologna.
«In Maternità. Ma ho passato i primi 15 anni di vita a Sadurano, nella Riserva naturale del Contrafforte Pliocenico, appena 11 abitanti. Oggi abito a Loiano, 7 chilometri da Monghidoro, il paese di Gianni Morandi, in una casa isolata, al limitare del bosco. Dalle finestre a volte osservo una coppia di lupi».
Chi erano gli 11 abitanti?
«Oltre a mio padre Umberto, restauratore decoratore, a mia madre Maria Dolores Garau, oggi pensionata dell’Unipol, e al loro unico figlio? Massimo Russo, falegname, e Magda Talaga, educatrice polacca. Li considero zii acquisiti. Poi due attori di una compagnia teatrale e una famiglia di contadini, formata da papà, nonna e due bambini. La madre era scappata».
Vita ai confini del mondo.
«La natura è il mio spartito invisibile. I primi strumenti sono stati il bramito dei daini e il vento tra le fronde. So distinguere il suono dei fiocchi di neve da quello che producono i graupel, precipitazioni solide simili a palline di polistirolo. Ho passato ore e ore, una volta un’intera notte, ad ascoltare le folate, arrampicato su una gaggia alta 15 metri».
«Dio viene con il vento», disse un bimbo a Enzo Biagi.
«Lo associavo a una presenza più grande di me».
Un genitore si preoccupa.
«Ero introverso, solitario, taciturno. I miei mi mandarono dallo psicologo: 20 anni di terapia. Adesso mi sono un po’ addomesticato».
Inadatto per un’epoca in cui la gente si parla addosso.
«Le persone hanno un disperato bisogno di affermare sé stesse per compensare carenze di vario tipo».
Sergio Saviane mi ripeteva: «In Italia tutti parlano, siamo rimasti in tre ad ascoltare: Luciano Benetton, Eugenio Scalfari e io».
«Eravamo in quattro, allora. Mi considero un architetto del silenzio e un compositore di emozioni. È stata la musica che mi ha consentito di tirarle fuori».
Come c’è arrivato?
«Io ascoltavo Mozart, i miei compagni di classe i Radiohead e i Nirvana. Il resto è venuto di conseguenza».
Però ho letto che a 3 anni voleva suonare la batteria. Poco adatto come strumento per chi adora il silenzio.
«Fin da bambino mi sono esercitato sulla pianola. Alle elementari ho avuto il primo approccio con il software usato da mio zio Gianni per comporre brani con il pc. A 11 anni già prendevo lezioni di pianoforte. Scrivevo i brani nella mia mente, senza conoscere il pentagramma e le note. Riuscivo a memorizzarli e richiamarli».
Infine il Conservatorio Giovan Battista Martini a Bologna.
«Ci entrai per studiare da pianista. Ma fui accolto da un mood pesantissimo, i suoi muri m’inquietavano. Scappai subito. Uscito dall’istituto d’arte, cinque anni dopo m’iscrissi nuovamente e mi diplomai in composizione. Poi andai a specializzarmi in musica per film a Roma, al Centro sperimentale di cinematografia, e a Milano, alla Civica scuola di musica Claudio Abbado».
Voleva diventare come Ennio Morricone?
«No, come John Williams, l’autore delle colonne sonore di Star Wars, E.T., Schindler’s List, Jurassic Park. Il mio secondo mito, dopo Mozart».
Alla fine è riuscito a comporre musiche per il cinema?
«Ero pronto, nel 2020 stavo per partire per Los Angeles. Il Covid mi ha bloccato in casa. Addio sogni di gloria. Forse è stato meglio così. Fuori dall’habitat in cui vivo, non mi sarei sentito bene. A Roma e a Milano non mi fermavo per più di due o tre notti. Non sarei mai riuscito a viverci. Non potrei abitare neppure a Bologna».
Il collega
«Allevi? Giovanni
è più solare, mentre
io sono più cupo, nostalgico»
Ha sprecato un’occasione.
«Qualche soddisfazione l’ho avuta. Ho vinto il Gang award per la miglior cover di Song of Storms, tratta dal videogame The Legend of Zelda, commissionatami dalla Decca. Molti dei miei brani sono entrati nel film Millers in Marriage del regista Edward Burns, già attore in Salvate il soldato Ryan. E Matilda De Angelis mi ha chiamato per un brano di Tutto può succedere, la fiction della Rai».
Per quale motivo De Angelis si è rivolta a lei?
«Quand’era piccola, le ho fatto da baby sitter. Per colpa mia ha una cicatrice sul mento. In piscina a Pianoro Nuovo mi ero distratto e lei scivolò sul bordo viscido. A 15 anni tornò da me con la madre e cantò, accompagnandosi con la chitarra. Restai basito. Una voce da pelle d’oca. Abbiamo lavorato insieme a un progetto discografico, che per ora resta chiuso in un cassetto».
Perché suona sulle vette e in luoghi quasi inaccessibili?
«La normalità per me è scalare. In cima ascolto il vento e mi sento a casa».
I suoi video sono «ecosostenibili», leggo. Vale a dire?
«Potrei usare l’elicottero, invece raggiungo i luoghi a piedi. Ho ideato un pianoforte ibrido, acustico ed elettronico, smontabile e trasportabile a spalla. Ci sta tutto in cinque sacche da 20 chili l’una. L’ho realizzato con l’aiuto dell’artigiano Russo, lo zio adottivo, e di mio padre Umberto».
Quanti sherpa le servono?
«Dobbiamo essere almeno in sei. Si marcia per ore».
Come mai ha scelto Su Tingiosu e lo Sciliar?
«Omaggi alla mamma, sarda, e al papà, nato a Siusi».
E il Wadi Rum?
«Beh, è il deserto attraversato da Lawrence d’Arabia, schivo e tormentato quanto me».
E l’Etna?
«Volevo cimentarmi in qualcosa di estremo. Siamo saliti a oltre 2.500 metri. Il vulcano era in eruzione. Abbiamo passato il primo giorno a trattenere con le mani la tenda, sotto una bufera di pioggia e grandine, con il vento che soffiava a 100 chilometri orari».
Rischiare la vita per un filmato. Ha senso?
«Me lo sono chiesto anch’io. Ero il più asociale dei musicisti. Fino a quando il Covid non mi ha costretto a prendere coraggio e a rivedere il mio giudizio sui social network. Instagram, TikTok e YouTube erano gli unici mezzi che avevo per raggiungere il pubblico. Perciò ho seguito un corso di marketing digitale e ho cominciato a postare dei videoclip che mi ritraevano intento a suonare il pianoforte in casa mia».
Che differenza c’è fra Giovanni Allevi e lei?
«Lui è più solare. Io sono cupo, nostalgico».
Ma la musica le dà di che vivere?
«Adesso sì, ma dai 17 ai 34 anni...».
L’ha vista dura.
«Madonna santa! Altro che dura. Se mio padre non mi avesse dato da lavorare nella sua bottega di restauro, avrei patito la fame. Mi è andata bene, sono stato fortunato. Conosco amici più bravi di me che non ce l’hanno fatta».