Corriere della Sera, 8 agosto 2025
Le ragioni e i torti su Almasri
Giorgia Meloni ha ragione sul caso Almasri, e anche torto. Ha ragione quando dice che i suoi ministri hanno agito per «tutelare il Paese». Ma ha torto quando aggiunge che la richiesta del processo da parte del Tribunale dei ministri è parte di un «disegno politico» della magistratura contro il governo. Sul primo punto: sembra molto difficile immaginare che Nordio, Piantedosi e Mantovano abbiano rilasciato e rimpatriato il «generale» libico, accusato di crimini orribili dalla Corte penale internazionale, perché gli stava simpatico, erano in affari con lui e ne erano stati corrotti, o per accrescere la loro popolarità.
L’
hanno fatto perché temevano ragionevolmente, su segnalazione dei nostri servizi segreti, vendette anti-italiane da parte della milizia di cui quel brutto ceffo era a capo, e che nello stato semi-fallito di Libia detiene un notevole potere di ricatto basato sull’uso della forza.
Del resto, era accaduta da poco una vicenda per molti aspetti istruttiva. Il regime dell’Iran aveva arrestato (rapito) la nostra Cecilia Sala per ritorsione: perché in Italia era detenuto, su richiesta della giustizia statunitense, l’«ingegnere dei droni», un cittadino iraniano accusato di terrorismo. Che cosa ha fatto il governo in quel caso, con l’unanime consenso del Parlamento? Ha chiesto agli Usa di chiudere un occhio e ha rilasciato l’iraniano, restituendo così la libertà alla nostra connazionale.
Nel caso Almasri si può dire che il governo italiano si sia mosso per analogia, ma preventivamente; prima cioè che si manifestasse la ritorsione. Ovviamente non possiamo sapere se ci sarebbe stata, e di che tipo. Ma era legittimo temerla. E in ogni caso chi, se non il governo e i suoi servizi di informazione, poteva valutare la gravità del rischio?
Ora il Parlamento, a maggioranza di centrodestra, respingerà la richiesta di processo per i tre membri del governo. È la legge a dire che può farlo «ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rivelante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico». Insomma: se invece di un «programma criminoso», come scrive il Tribunale dei ministri, si sia trattato di ragion di Stato.
La vera domanda allora è: perché il governo non l’ha detto subito, invece di infilarsi a gennaio in un’imbarazzata e imbarazzante pochade di piccole bugie e grandi scaricabarile, tentando di attribuire la colpa del pasticcio ai presunti errori della Corte di Appello di Roma o della Corte penale internazionale? La stessa premier, che oggi espone fiera il petto assumendosi la personale responsabilità della decisione, si era guardata bene all’epoca dal metterci la faccia in Parlamento, dove avrebbe potuto agevolmente sostenere ciò che ora sostiene.
Rispondere a questa domanda è importante perché spiega anche la seconda parte del nostro teorema: cioè perché Giorgia Meloni ha torto nell’accusare la magistratura di un complotto. E la risposta si chiama «moralismo»: il marchio di fabbrica della Seconda Repubblica, nata non a caso da un’inchiesta giudiziaria.
L’unica, vera Grande Riforma finora realizzata in Italia è infatti la riscrittura dell’articolo 68 della Costituzione nel 1993. Cancellando l’immunità parlamentare, si consegnò simbolicamente nelle mani dei giudici l’autorità morale del controllo sull’azione politica; con effetti immediati, già in Procura, ben prima del processo, dal momento dell’avviso di garanzia. La destra italiana, Lega compresa, nata nel brodo di coltura dell’antipolitica, è figlia legittima di quella svolta. Non è senza significato che i tre ministri indagati, Nordio, Piantedosi e Mantovano, siano due magistrati e un prefetto.
Ecco perché un governo di destra non ha avuto il coraggio di sostenere subito la ragion di Stato davanti all’opinione pubblica: perché temeva che la scarcerazione di Almasri potesse apparire «immorale». Cosa che sulla base di criteri etici certamente è: ma la ragion di Stato contiene una sua superiore moralità, e cioè l’interesse pubblico.
Così oggi, in difesa di una presunta «immacolatezza» già qua e là scardinata dalle inchieste, il governo non può fare a meno di attribuire a una vendetta la procedura alquanto trasparente seguita dalla magistratura, una volta venuta a conoscenza di una notizia di reato e una volta accertata che può portare a una «ragionevole previsione di condanna». Del resto, era già successo anche a Salvini per il caso dei migranti trattenuti sulla Open Arms, ed è finita con un’assoluzione.
Anche se queste inchieste fossero davvero una ritorsione per la riforma della Giustizia, e sicuramente ci sono magistrati animati da tali intenti vendicativi, non cambierebbe niente. Negli Usa si contano a decine i giudici che indagano sui decreti di Trump. La terzietà del giudice è scritta nella nostra Costituzione e vale in entrambi i sensi: pensate che cosa si sarebbe detto del Tribunale dei ministri se avesse deciso invece di archiviare le accuse ai tre ministri.
La destra di governo ha educato il suo elettorato a identificare l’azione penale con un verdetto di moralità. Lo stesso vale per la sinistra di opposizione. La quale, in più, ha una certa disinvoltura nel valutare caso per caso. Avendo appena politicamente «assolto» il sindaco Sala e l’ex sindaco Ricci poiché «perseguivano l’interesse pubblico», ora può tranquillamente negare la stessa presunzione di innocenza ai tre ministri sotto accusa.
E così non ne usciremo mai.