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 2025  agosto 13 Mercoledì calendario

Intervista a Gianni Melidoni


«Non amo raccontarmi e non sono un vanitoso, ma se vuole venga pure domani a casa dopo le 11.30, prima devo andare in piscina. Nuoto ogni giorno, almeno un chilometro, una cinquantina di vasche. Un tempo erano molte di più, ma sabato compio 90 anni, accontentiamoci».
L’inconfondibile voce pastosa di Gianni Melidoni, decano dei giornalisti italiani, è rimasta intatta, così come la lucidità delle analisi, i ricordi e gli aneddoti puntellati da foto, premi, letture di biglietti ricevuti dai grandi nomi dello sport. Tre ore di racconti, intervallati da uno squisito pesce cucinato da Carlos, lo storico maggiordomo, e dagli ironici botta e risposta con sua moglie Mariolina, sotto lo sguardo divertito della figlia Elena: «Li guardi, sembrano Sandra e Raimondo, tra poco sono 70 anni che stanno insieme...». I numeri ricorreranno spesso: la vita rischiata a soli 6 anni, i primi articoli ad appena 14 per il Messaggero, assunto a 20, quindi 23 stagioni da capo dello sport e 2 da vicedirettore a via del Tritone, un prepensionamento amaro e mal digerito a 59 cui hanno fatto seguito 3 cause vinte, gli ultimi 2 anni di professione al Tempo, i 69 di matrimonio con la signora Mariolina, i 6 figli (Antonio, Rita, Elisabetta, Laura, Elena e Giorgio), le 11 Olimpiadi. E poi i numeri di nipoti, campionati, Europei, Mondiali, Giri d’Italia.
Melidoni, 90 anni sono la bellezza di 32.850 giorni: considerate gioie e dolori, di cui uno atroce, pensa di averli vissuti tutti intensamente?
«Intensamente ho sicuramente vissuto il mio rapporto con la fede e il Signore, perché sono molto religioso. Per il resto, mi sono divertito a fare quello che sentivo, ho dato tutto quel che potevo e ho accettato ciò che la vita mi ha concesso. Non sono mai stato un vanitoso, un esibizionista, né un arrampicatore, eppure ho subito molte carognate e cattiverie, che penso di non aver meritato».
Viene riconosciuto come una grande firma romana, ma...
«Ma sono nato a Napoli, come mio nonno e mio papà, ufficiale di Marina, che mi ha trasmesso l’amore per il mare. E tifavo per il Napoli, lo dico per sfatare la diceria che fossi romanista, mentre mi sono occupato indifferentemente di Roma e di Lazio con tanti amici nelle due società avendo raccontato lo scudetto biancoceleste nel 1974 di Lenzini, Maestrelli e Chinaglia e quello giallorosso nel 1983 di Viola, Liedholm e Falcao».
Si definisce un miracolato di Santa Rita, perché?
«A sei anni dovevo essere operato d’urgenza al cervello. Avevo 40 di febbre, la sera prima mia mamma, devota a Santa Rita, sentì un grande botto dalla mia cameretta. Venne, mi misurò la temperatura: era sparita. Non mi operarono più, fu una guarigione miracolosa. Mia figlia e una nipote si chiamano Rita».
A 14 anni lei iniziò già a scrivere per «Il Messaggero»: un bambino prodigio. Ricorda il primo articolo?
«A 12 anni scrivevo il giornalino del mio palazzo che distribuivo ai condomini. Finì nelle mani di un giornalista del Messaggero che chiese il permesso a mio padre di farmi iniziare. Il primo servizio fu al Motovelodromo Appio per Poligrafico-Frosinone: 20 righe. A 17 anni ho raccontato il Giro della Calabria vinto da Bartali. A 19 i campionati Europei di nuoto. A 20 sono stato assunto, attirandomi non poche invidie».
Riuscì a coniugare lavoro e studi?
«Fu impossibile perché a 21 anni nel 1956 sposai Mariolina e avemmo subito due figli. Lavoravo fino alle 4 di notte per l’impaginazione del giornale, poi tornavo a casa e cullavo Antonio e Rita fino alle 8, dormivo qualche ora e tornavo al Messaggero. A 30 anni avevo già 5 figli e il lavoro assorbiva tutto il tempo».
Come giudica il giornalismo di oggi?
«Male, il giornalismo che conoscevo io non esiste più. È morto. I social hanno ammazzato questo mestiere, modificandolo nel profondo. Io mi vanto di non avere il telefonino. Tutto è massificato, superficiale, confuso. Molte testate hanno perso copie, qualità e credibilità. Tranne pochi casi non ci sono più grandi firme e la concorrenza è svanita: una volta al mattino controllavi cosa aveva fatto il tuo competitor, se avevi preso o dato un buco. Oggi non si sa neanche chi ha fatto cosa. I giornali erano un tramite, adesso la comunicazione è diretta e i protagonisti la fanno dai profili social. Non mi sarebbe piaciuto lavorare oggi, non ho alcun rimpianto».
Magari sarebbe stato un grande giornalista digitale.
«Non lo so, ma nutro qualche dubbio. Io non ho mai avuto neanche una macchina da scrivere perché non la sapevo usare, figurarsi un computer».
E come scriveva?
«Carta e penna, scrivevo a mano i miei articoli e li dettavo al dimafonista. Molto spesso prendevo solo qualche appunto e andavo a braccio».
I colleghi più giovani che ne pensavano?
«Non ci badavano, sapevano che sarei stato sempre il loro ombrello: proteggevo la mia redazione, internamente ed esternamente, contro tutto e tutti. Se dovevo fare un rimprovero, lo facevo in privato».
Uno stile brillante, per cui fu definito «il principe dei giornalisti sportivi», ma anche tante dure battaglie, come quella con il ct Bearzot prima dei Mondiali in Spagna. La sua mano, per parafrasare Mario Brega, poteva essere piuma o ferro.
Al Messaggero
«Cominciai a 14 anni
Quando Bearzot lasciò a casa Pruzzo, scrissi che dormiva in piedi»
«Contestai a Bearzot le scelte: non convocò Pruzzo capocannoniere e affermai che “dormiva in piedi”. Ho sempre detto e scritto ciò che pensavo».
Lei è stato per anni anche un volto tv, partecipando al «Processo di Biscardi».
«Aldo inventò un genere, con il confronto anche serrato tra giornalisti di Milano, Roma, Torino. Il calcio ha profonde radici socio-culturali, vive di campanilismo. Ma il nostro livello era alto. Non si sbagliavano i congiuntivi e partecipavano anche grandi personaggi, politici ed artisti come Carmelo Bene, che io portai al Messaggero. Poi in tv c’è stata una deriva e un imbarbarimento con teatrini sempre più volgari dove chi urla, insulta e la spara più grossa fa audience».
Carmelo Bene coniò per Falcao il soprannome «Il Divino». Lei ebbe un grande rapporto con il brasiliano.
«Per le gesta da campione e le vittorie in campo, Falcao dalla Roma era pagato. Ma la nobiltà e l’eleganza che lui trasferì alla Roma, quelle furono un suo regalo».
Mai avuta voglia di lasciare Roma per fare altre esperienze?
«No. Ebbi offerte dal Corriere della Sera e dalla Gazzetta. Mi chiamò anche La Stampa, allo stadio di Torino spuntò uno striscione “Melidoni, se vieni ti uccidiamo”, perché ero visto come filo romanista. Ma Il Messaggero era un grande giornale e vivere a Roma una fortuna e un privilegio».
Un articolo a cui è rimasto particolarmente affezionato?
«Quello in cui, unico, avevo previsto l’oro di Berruti nei 200 metri alle Olimpiadi di Roma del 1960. Lui per ringraziarmi, prima di rientrare a Torino con la macchina 500 ricevuta come premio per la vittoria, venne a trovarmi nella mia casa al mare a Santa Marinella. Ho una foto di Livio e mio figlio Antonio che mimano i blocchi di partenza a cui sono molto legato».
Scelga il presidente, l’allenatore e il giocatore preferiti della sua lunga carriera?
«Dino Viola, Arrigo Sacchi e Paulo Roberto Falcao. Ma anche Ciccio Cordova».
I colleghi fuoriclasse?
«Gian Paolo Ormezzano e Giorgio Tosatti».
Quali sono state le sue più grandi passioni?
«La famiglia, il giornalismo e il nuoto. Anche da inviato, se ero in una città di mare andavo subito a nuotare. Un costume non mancava mai nella mia valigia».
Lei ha vissuto il dramma più innaturale, la perdita di una figlia, Laura.
«Per il dolore svenni e per giorni rimasi imbambolato. La fede mi ha aiutato ad accettare quello che non dovrebbe mai accadere: sopravvivere a un figlio».
Tra altri 90 anni come vorrebbe essere ricordato?
«Come una persona per bene».
Melidoni cos’è la vita?
«Un passaggio».