La Stampa, 14 agosto 2025
"Cento giorni da Leone XIV il papa normale che riformerà la Chiesa"
Città del Vaticano
«Leone XIV è uomo di governo e realizzerà la riforma del papato attesa da mezzo secolo», afferma Giovanni Maria Vian, storico del cristianesimo, docente alla Sapienza per un trentennio e dal 2007 al 2018, con Ratzinger e Bergoglio, direttore de L’Osservatore Romano. Sull’esercizio del potere vaticano ha scritto L’ultimo papa (Marcianum Press), già tradotto in francese e spagnolo.
A cento giorni dall’elezione, che papa è Leone XIV?
«Un papa normale, che cerca volutamente un profilo basso come cifra personale per non oscurare il messaggio evangelico con personalismi. Le sue prime parole sono state “La pace sia con voi”, il saluto di Cristo risorto. In questo modo ha ricordato al mondo secolarizzato che lui è solo uno dei successori dell’apostolo Pietro. Nella sua carta d’identità spirituale c’è Agostino, che ai suoi fedeli si definiva “cristiano con voi, vescovo per voi": insomma un cristiano tra gli altri. E come Gregorio Magno vuol essere “il servo dei servi di Dio”, che dall’inizio del medioevo è il più bel titolo papale».
Qual è la linea di Prevost?
«La stessa di Francesco, ma senza i suoi eccessi di personalizzazione e autoritarismo. Con echi dei papi dell’ultimo sessantennio, di cui però non ha ripreso i nomi. Dal 1978 i papi non sono più italiani, circostanza che non si ripeteva dal settantennio di Avignone dove si succedettero sette papi francesi. I tre pontificati prima di Prevost, quelli di Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio, sono stati innovativi ma per motivi diversi tutti insufficienti nella gestione del governo centrale della Chiesa. Leone è invece uomo di governo. Come priore generale per dodici anni ha governato il suo ordine, quello degli agostiniani, dalle profonde radici culturali e spirituali. Personalmente nasce dal melting pot Usa: nel suo caso, una mescolanza di origini europee e caraibiche. Un papa panamericano, come l’iconica strada che unisce l’Alaska alla Terra del Fuoco. Educato negli Stati Uniti e a Roma, matematico e sportivo, missionario in Perù di cui si sente figlio e ha la cittadinanza, canonista. Venne segnalato a Francesco dal canadese Marc Ouellet, allora prefetto dei Vescovi e del quale è stato successore. La sua elezione lampo quasi plebiscitaria è stata preparata da cardinali statunitensi, ma anche da curiali come il piemontese Giuseppe Versaldi».
Anche la scelta del nome è un’indicazione di governo?
«Leone XIII è stato il primo papa eletto dopo la fine dello Stato pontificio. Dunque il primo papa non più re, dalle mille sfaccettature. Prevost ha ricordato l’enciclica Rerum novarum, che fece epoca per una nuova sensibilità sociale, dichiarando che bisogna affrontare la rivoluzione attuale, dal mondo digitale all’intelligenza artificiale. Ma Leone XIII era anche nostalgico del potere temporale, come il predecessore Pio IX, e protestava contro chi lo aveva spazzato via. Decisamente ostile alla massoneria, promotore del rosario e della devozione allo Spirito Santo, moltiplicò i giubilei, legandoli anche a ricorrenze personali come la sua ordinazione sacerdotale, per contrastare la propaganda anticlericale di un’Italia finalmente unita. Papa molto politico, per arginare i governi italiani ostili alla Santa Sede tentò la carta della distensione con una Francia sempre più laica. Ma è stato anche il papa della grande diplomazia internazionale, del primo rinnovamento degli studi biblici e dell’attenzione all’Oriente cristiano. Ha continuato il respiro internazionale impresso al papato da Pio IX che volle il Concilio Vaticano I, il primo davvero mondiale. Ed è stato Leone XIII a creare cardinale John Henry Newman che proprio Prevost dichiarerà “dottore della Chiesa"».
Un identikit per il pontificato attuale?
«Ogni papa prende da chi lo precede e aggiunge del suo, verso la stessa meta ma scegliendo altri percorsi, anche molto diversi, se serve. Un esempio è la comunicazione: Prevost non vuole farsi condizionare dall’immagine pubblica come Bergoglio, che a forza di immergersi nei meccanismi mediatici è finito impigliato negli stereotipi. La grande riforma di Leone XIV è spersonalizzare il papato: non mettere sé stesso al centro. Come si è visto subito, quando si è affacciato su piazza San Pietro con quei fogli in mano per far capire che non avrebbe improvvisato nulla».
Quale segnale ha dato?
«Prevost è stato eletto prima del conclave. L’8 maggio, giorno della fumata bianca, già all’ora di pranzo ha iniziato a scrivere il suo discorso perché sapeva che sarebbe stato eletto. Albino Luciani, morto dopo un mese, sembrava improvvisare ma imparava a memoria i suoi discorsi efficacissimi, e sarebbe stato nella linea di Montini, forse con più energia ma senza la sua profondità, come confessò lui stesso. Wojtyla, che pure venerava Paolo VI, si è invece collocato su posizioni molto diverse. Preoccupato soprattutto di portare il Vangelo nel mondo, ha lasciato la Curia a sé stessa, che come un giardino non curato è cresciuta a dismisura. Sarebbe servita una potatura, ma Ratzinger, teologo dalla fede limpida e ardente non era uomo di governo ed è stato tradito. Fino a Bergoglio, cavaliere solitario che l’ha quasi sradicata e ha assorbito in sé il papato».
Prevost è un “ricucitore” dopo gli strappi di Bergoglio?
«Leone XIV rassicura una Curia uscita malconcia e piena di lividi dalla mano dura di Francesco. “I papi passano, la Curia rimane”, ha detto, ma in questo modo toglie ai curiali ogni pretesto per sottrarsi alla riforma, necessaria e urgente. Il suo modello è Paolo VI, il più incisivo rinnovatore della Curia dopo Pio X. Bergoglio è sempre stato diffidente nei confronti della Curia e della stessa Segreteria di Stato, che ha svuotato di potere e di capacità finanziaria. E ha cambiato molti segretari personali perché non s’impossessassero di lui. Una buona ragione, ma che lo ha privato di un aiuto indispensabile. Leone XIV si è invece tenuto come segretario un giovane prete peruviano di cui si fida. Sa già muoversi bene in una Curia che per Prevost, come disse Paolo VI tre mesi esatti dopo la sua elezione, “deve essere esemplare agli occhi della Chiesa e del mondo"».
Quale pontificato sta emergendo?
«Leone XIV, con la sua personalità, rifugge dai personalismi mediatici e si vuole fare trasparente per annunciare solo il Vangelo. Per lui, insomma, non conta il cantante ma la canzone, per riprendere l’immagine usata da Giovanni Paolo II. Invece, in molti casi e in modo strumentale Bergoglio ha dato corda al politicamente corretto, finendo per dividere e polarizzare la Chiesa. Ma soprattutto ha personalizzato ed esercitato il potere papale in modo assoluto. La sinodalità è un valido metodo, promosso da Francesco ma che è risultato indebolito proprio dal suo esercizio autocratico del potere. La vera riforma della Chiesa è sviluppare la collegialità disegnata dal Concilio Vaticano II, come aveva iniziato a fare Montini, seguito parzialmente da Wojtyla e Ratzinger. Non tanto da Bergoglio, per limiti caratteriali e connessi alla formazione gesuitica. Prevost riformerà il papato, nella normalità». —