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 2025  agosto 02 Sabato calendario

Intervista a Giovanni Minoli

Manuale di sopravvivenza, istruzioni per l’uso: «Per provare a cavarsela bisogna avere il culo, ma anche la sfortuna di crescere con 7 fratelli come è capitato a me. Nel rapporto tra noi il lato selvaggio prevaleva sugli altri e tra una rissa, una corsa sui tetti e una colluttazione che più che al genere umano era debitrice alla bestialità, ho capito in fretta che la vita sarebbe stata una lotta. Non so come abbiamo fatto a non morire tutti perché i nostri giochi somigliavano a quelli di Hunger Games. Le persone che lavoravano a casa nostra si licenziavano dicendo: “Signora, anche oggi abbiamo trovato sangue sui muri” finché mio padre, un grande giurista novecentesco, l’uomo che aveva inventato l’arbitrato internazionale, non ci impose delle regole. La prima era che io e i miei fratelli, per gestire il nostro territorio, far tacere le armi e anteporre il diritto all’homo omini lupus, dovessimo indire delle vere e proprie elezioni e sottostare al risultato della consultazione popolare. Io ero il capo dell’opposizione e mio fratello maggiore, che aveva spietatamente ridotto il secondogenito con il quale divideva la camera al rango di schiavo, il dittatore assoluto. Ho scoperto il voto di scambio a 5 anni e intuito che le partite dell’esistenza non durano soltanto 90 minuti perché il campionato è lungo e per rigiocare c’è sempre la domenica successiva». I ricordi di Giovanni Minoli, leva calcistica della classe 1945, ottant’anni compiuti in maggio, sostano al confine tra autoironia e consapevolezza dei rapporti di forza. Senza la prima non si avanza di un passo, in assenza della seconda si soccombe.
Paolo Minoli, uno dei suoi fratelli, morì davvero. E non morì per gioco.
«Se ne andò a causa di un tumore al cervello, a sei anni. A sera tutta la famiglia si riuniva ai piedi del suo letto per recitare le preghiere. Un momento drammatico che mi ha fatto capire che l’esistenza è niente: è solo un attimo. Da ragazzino pensi che non possa accaderti nulla e ti illudi di essere immortale. Intuimmo invece che eravamo mortali e lo intuimmo presto».
Che ricordi ha dei suoi genitori?
«Mia madre, prima di essere tale, era soprattutto una moglie innamorata di suo marito. Fece otto figli perché era cattolica praticante e li fece con un uomo che aveva tradito le origini, quelle di una grande famiglia massonica, in un’epoca in cui a Torino i massoni erano i padroni assoluti. Per quest’uomo sempre in giro per il mondo mamma aveva una venerazione. Ho sempre avuto l’impressione che di noi le importasse il giusto e che per guarire papà da un raffreddore non avrebbe esitato, se costretta, a cavare gli occhi a tutti i figli senza distinzioni né sentimentalismi. L’educazione era severa e nonostante la simpatia, perché mia madre era simpatica, in casa più che un’orsolina ricordava un kapò».
I suoi genitori morirono in un incidente stradale.
«Si schiantarono entrambi con la macchina a molti anni di distanza l’uno dall’altra. Mia madre, che al volante era una pazza scatenata, andava regolarmente a 200 all’ora. Con lei, che non mi ha mai davvero amato, i rapporti erano così conflittuali che del giorno della sua morte non ho una memoria così precisa. So che ero al mare, che era appena nata mia figlia Giulia e che con mia madre avevo litigato anni prima. Da assoluta snob non sopportava Matilde Bernabei, mia moglie, che considerava solo la figlia di Ettore, il direttore generale della Rai, la diretta emanazione di un potente dirigente di ispirazione democristiana. Un giorno disse a Matilde una cosa particolarmente sgradevole e la affrontai a viso aperto: “O le chiedi subito scusa o non mi vedi più”. Non mi vide per dieci anni. Dieci anni senza parlarle, senza un contatto, un augurio di Natale, senza niente».
Com’erano invece i rapporti tra lei e suo padre?
«Mio padre per me era tutto: sodale, complice, maestro e miglior amico. A 16 anni scrissi un libro di 200 pagine in cui prefiguravo con esattezza luogo e ragioni della sua morte. Ci stava raggiungendo in vacanza, senza autista né macchina di servizio. Guidava lui che era proprio negato e che con la sua 850 finì contro un autotreno che faceva inversione a U. Morì sul colpo. Eravamo tutti in cucina a fare colazione. Mamma rispose al telefono, attaccò e si girò verso di noi: “Papà è morto"».
Cosa si aspettava dal futuro quando era ragazzo?
«Di tirare pedate a un pallone. Nel 1963, come miglior giocatore del torneo, vinsi il Carlin, insieme al Viareggio, uno dei due trofei calcistici giovanili più importanti d’Italia. Correvo veloce, facevo i 100 metri in 11 secondi ed ero veramente fortissimo. Il vecchio Rizzoli mi avrebbe voluto portare al Milan e venne a casa per convincere i miei: “Lo paghiamo bene e lo facciamo studiare”. In risposta ricevette poco meno di un vaffanculo».
Lei rimase male?
«Malissimo. Quando sono deluso soffro molto».
Cosa la fa soffrire veramente?
«Rendermi conto che un rapporto umano nel quale ho investito molto si rivela un inganno. Il dolore piano piano mi passa, però ci vuole tempo ed è un processo lento. È senz’altro vero che come sosteneva Mario Schimberni tutto arriva nella vita a chi sa aspettare, ma a quella frase, pur fulminante, manca qualcosa».
Cosa?
«Il racconto di quante sofferenze, quante fregature e quanti tradimenti si debbano sopportare nel limbo di quell’attesa. Penso spesso all’ultima cena, a Gesù e a Giuda e mi dico: “Se è andata così a lui che era Dio e ce l’ha messa a tutti in quel posto che capiti a chiunque di noi è persino ovvio”. La vita è così, è un inganno e per andare avanti devi saperlo».
Qual è la qualità migliore che si riconosce?
«Saper vedere negli altri quello che neanche loro sanno di valere. Ho messo in piedi quasi cento redazioni e ho sbagliato poche scelte. A volte naturalmente è successo perché non sono infallibile e perché il compromesso esiste».
Cos’è il compromesso?
«Quell’istante in cui potresti dire di no, ma scegli di non farlo allo scopo di realizzare un disegno più grande».
E il potere?
«Ha quattro regole auree: essere parte di un grande progetto che è destinato a superarti e a rimanere nel tempo, non avere paura di circondarti di persone più intelligenti e più brave di te, essere onestissimi, non essere ricattabili».
Chi gliele ha insegnate?
«Amintore Fanfani. Un giorno ceniamo insieme e gli domando: “Hai letto l’editoriale di Scalfari?”. Mi guarda come si osserva un idiota e dice “Giovanni, io i giornali non li leggo perché li scrivo”. Fine del discorso. Non c’è più niente da dire, niente da aggiungere, niente da capire come cantava De Gregori».
Fabrizio De André diceva che c’è chi fa la televisione e chi la subisce.
«Aveva ragione. Ho provato a stare saldamente nella prima categoria anche se fare bene un mestiere in tv è un affare molto complicato».
Lei venne assunto in Rai al principio degli anni ’70.
«I miei primi programmi veri, i più difficili, furono i programmi per bambini. Pur essendolo stato, dei bambini, del loro sviluppo cognitivo e di cosa pensassero davvero non sapevo niente. Andai al Rousseau di Ginevra, da Jean Piaget per conoscere a fondo la materia. Doveva essere una cosa rapida, ci rimasi per due mesi».
La Rai del tempo aveva l’obiettivo di alfabetizzare il Paese.
«La Rai era un passo avanti rispetto all’Italia e agli italiani e non solo lo alfabetizzò, ma lo istruì e lo formò. Dan Rather aveva capito che la tv è più potente e pericolosa di una bomba atomica, ma i suoi effetti sono ritardati nel tempo e se non è usata responsabilmente rischi di creare generazioni di zombi ingovernabili».
Il rischio è diventato realtà?
«Purtroppo siamo arrivati a quel punto. Il senso di responsabilità della Rai di allora aveva qualcosa di scientifico e di monacale. Certo che la politica aveva il suo peso, ma quel peso e la relativa cooptazione erano tesi a cercare ed individuare le migliori teste di un arco costituzionale immutabile, ma rispettoso delle molte anime presenti in Parlamento. Nei confronti della televisione i giornalisti della carta stampata di allora erano alteri e consideravano il mezzo, nel migliore dei casi, un veicolo frivolo e inoffensivo».
Sbagliavano?
«E non di poco. Di sicuro da allora è cambiato tutto. Ieri gli scatti nelle carriere erano rari e salvo qualche rara eccezione parametrati alle tue capacità. Adesso vale tutto. E vedi, i giornalisti, come in un pollaio, a beccare ciò che arriva dall’alto, affamati di visibilità. Osservare persone che pur di apparire in tv come opinionisti si ammazzerebbero a vicenda per andare magari al bar, essere riconosciuti e fare colpo su qualcuno è abbastanza straziante».
In televisione c’è competizione.
«Ci sono sgambetti, lunghi coltelli, scorrettezze, porcatine. Si ascende, si cade in disgrazia e poi, se sei fortunato, capita di risalire. Roberta, la mia saggia segretaria, nei momenti neri, quando mi trattavano da appestato, provava a consolarmi: “Dottore, oggi non le ha telefonato nessuno: cerchi di abituarsi. Vedrà che nessuno le telefonerà per un bel po’. Ma poi torneranno a chiamarla”. Aveva ragione. Le cose girano, cambiano e peggiorano. Ma possono anche migliorare».
Le è mai capitato di raccomandare qualcuno?
«Certo, è successo. Me ne sono pentito raramente. La raccomandazione è un utile volano per chi ha qualcosa da dire, ma se non sai fare nulla non serve a nessuno: né a chi raccomanda, né a chi beneficia della spinta».
Mixer ha compiuto 45 anni: andò in onda per la prima volta nell’Aprile 1980. Non so con quanto consapevole narcisismo lei ha detto che i primi piani di quel programma, televisivamente parlando, equivalgono a un taglio di Fontana.
«L’ho detto perché lo penso. Quei primi piani, rispetto al linguaggio precedente, rappresentavano una rottura totale. Cosa diceva in fondo Fontana con i suoi tagli? Ti diceva la pittura è finita e abbiamo dipinto tutto ciò che si poteva, cambiamo, andiamo altrove, reinventiamo tutto. Il tentativo di Mixer era dar vita a una tv che non si era mai vista e che non esisteva».
Come si fa buona televisione?
«Devi avere una buona storia, ma soprattutto devi sapere come raccontarla. Sembra un paradosso, ma la tv ha più bisogno di programmi che di idee».
Prima mi ha detto che politica e televisione sono quasi inscindibili. Lei quelli della Prima Repubblica li ha intervistati quasi tutti.
«Anche quelli della Seconda. Nel 1994 intervistai Berlusconi. Con lui fui durissimo e la pagai».
Chi è stato Berlusconi secondo lei?
«Un grande, anzi un grandissimo. Io non potevo essere berlusconiano perché sono un democratico e non amo che il gioco sia truccato. Se salgo su un ring a boxare con una mano legata dietro la schiena il match è impari e anche se sono Cassius Clay finisco per perdere comunque. Detto questo con Berlusconi ho trascorso serate molto divertenti perché era un uomo di grande intelligenza e brillantezza e persino istruttive perché parlare di televisione con lui era ancora meglio che farlo con Bernabei. Un po’ perché i brianzoli sono dei democristiani ariosi e un po’ perché Berlusconi conosceva l’aspetto commerciale del mezzo e restituiva qualche chiave di lettura in più».
Meloni le piace?
«Mi piace perché conosce la politica e la capisce fino in fondo».
Chi può insidiarla?
«L’unico è Renzi. Tra 7-8 anni secondo me torna perché anche lui capisce la politica e quando parla raramente dice una sciocchezza».
Chi afferma che lei deve tutto a Craxi dice una sciocchezza?
«Racconta una favola. Io e Bettino ci saremo visti 10 volte e se non sono 10, non arriviamo a 15. Io ero amico di Martelli, non di Craxi. Anche se è finita, è stata un’amicizia straordinaria».
Berlusconi coltivava il sogno dell’immortalità. Lei nel 2018 è stato operato a cuore aperto. Il chirurgo si stupisce: “Qui vengono tutti con una fottuta paura di morire e lei sorride”.
«Non ho paura di morire, ma di certo vorrei accadesse senza soffrire. Se mi devono tagliare prima le gambe e poi le braccia magari mi dispiace. Ma se tra 5 minuti mi viene un colpo e me ne vado, non me ne frega niente».
Quando intervista García Marquez gli domanda: “Ma lei crede in Dio?”.
«E lui mi risponde “Io no, però spero che Dio creda in me”. È una bella risposta, la risposta di uno che non potrei definire ateo».
Come è stata raccontata la storia d’Italia degli ultimi 80 anni?
«Con tante omissioni e altrettante semplificazioni disoneste. Se avessimo processato Mussolini invece di ammazzarlo, ad esempio, avremmo capito molte cose. Perché pur avendo perso la Guerra non siamo diventati l’Honduras o la Bulgaria? Nessuno se lo domanda, ma non è difficile ipotizzare sia stato merito dell’unica grande multinazionale presente a Roma: il Vaticano».
C’è altro?
«Potremmo star qui una settimana. Prenda Moro e Andreotti: nell’agone vero, quello in cui si decidono i destini e si indirizzano le fortune economiche e non solo, hanno contato pochissimo. Ma nell’immaginario collettivo sono passati alla storia. Perché? Perché erano due simboli utili alla cultura radicale interessata a semplificare e a raccontare l’Italia a chi non ne sa niente, ma crede di conoscere tutto e si pasce della propria ignoranza. Cerchiamo di essere analitici: Moro è il fondatore dei dorotei, Andreotti non è mai stato segretario del suo partito. Ovviamente esagero, ma esagerare spesso aiuta a capire le cose per come stanno e a evitare le balle».
A lei le bugie piacciono?
«Per niente, seguirne la concatenazione, per chi le racconta, è un esercizio faticosissimo. Ne inventavo di meravigliose: ho smesso a 13 anni».
Dire la verità è il dovere più importante di un giornalista?
«Che tu la dica o no farsi credere è difficile. Tutti penseranno che sbandieri le tue con un secondo fine».
Come capisce se qualcuno mente?
«Dalla faccia. Il volto è più eloquente di qualunque risposta».
Non sempre gli intervistati erano contenti di parlare con lei.
«Kissinger mi avrebbe voluto uccidere e Berger, il Ministro della Difesa americano che gestiva i dossier dei Contras e quelli iraniani, forse peggio. All’ultima domanda si liberò. Gli chiesi: “C’è una cosa che non rifarebbe?”.
E lui?
«"Un’intervista con lei perché è un vero bastardo"».
Si riconosce nella carezza?
«Anche se a qualcuno è sembrato il contrario, non ho mai infierito, non mi sono mai preso sul serio e non mi sono sentito mai un personaggio. Ero e sono Giovanni, il resto è costruzione».
Qual è il progetto per il prossimo decennio?
«Non sarò più qui, meglio non farne. Più realistico. Più elegante».