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 2025  agosto 14 Giovedì calendario

Scrittori sedotti dalla mescalina: “L’assoluto spalanca le sue porte”

Ancora prima di lavorare a La Nausea, Jean-Paul Sartre racconta che negli anni Trenta provò la mescalina (alcaloide psichedelico contenuto principalmente nel peyote) grazie a un suo amico, il dottor Daniel Lagache: “Credo sia stato il modo con cui ho iniziato ad avere allucinazioni per la prima volta, vedendo granchi e aragoste. Non era male. Camminavano con me, al mio fianco”. Da par suo, il teatrante surrealista francese Antonin Artaud, che intraprese un viaggio poi rivelatosi fatale per il Messico nel 1963 per seguire il peyote, si ritrovò sprofondato in un abisso di follia che lo condusse alla morte. Tuttavia, ebbe il tempo di annotare in un racconto anonimo uscito nell’agosto dell’anno seguente sulle pagine della Nouvelle Revue Française che il suo corpo era diventato un “cataclisma” e che “vi è nella coscienza il Meraviglioso col quale oltrepassare le cose. E il peyote ci dice dov’è”.
E dello stesso avviso fu anche lo scrittore inglese Aldous Huxley. Un luminoso mattino del 1953, annota che assumere mescalina era “l’esperienza più straordinaria e significativa che gli esseri umani potessero fare al di qua della Visione Beatifica”. Non a caso, in quella Bibbia della letteratura psico-visionaria che è Le porte della percezione (1953), raccontava l’accrescimento della sua coscienza. Huxley, infatti, è convinto che la mente per via dell’adattamento all’ambiente e spinta dall’istinto darwiniano di auto-conservazione, nella sua evoluzione si sia da sola “ridotta” in una misura che ci consenta la “pura e semplice sopravvivenza”. Ecco, la mescalina spalanca le porte verso l’assoluto.
E proprio incuriosito dal testo di Huxley, nel gennaio 1955 l’artista e poeta franco-belga Henri Michaux conduce ricerche sulle sostanze capaci di modificare la visione della realtà, e prova per la prima volta la mescalina. La cultura psichedelica era già iniziata a cavallo tra Otto e Novecento. E in Europa, il cactus che i messicani chiamano peyote – da peyotel, termine di origine Nahuatl che probabilmente significa “splendore” o “illuminazione” – da cui si estrae l’alcaloide allucinogeno noto come mescalina arriva nei primissimi anni del ventesimo secolo, grazie a farmacologi e psicologi che erano venuti a contatto con i rituali della chiesa nativa americana, diffusa tra i popoli amerindiani.
Quello di Michaux fu il primo di una serie di esperimenti “allucinogeni”, seguiti da un medico e sostenuti dal suo editore, Les éditions du Rocher, che nel 1956 pubblica Misérable, Miracle, che torna oggi nelle nostre librerie per Quodlibet (traduzione di Claudio Rugafiori, a cura di Carlo Mazza Galanti). Il poeta voleva diventare una specie di sismografo per comprendere fino a che punto il terremoto della “visione allucinogena” si riverberasse durante il processo artistico (come si vedrà soprattutto al culmine di questi esperimenti, nel 1963, quando realizzerà il film Images d’un monde Visionnaire).
Il titolo del libro, Miserabile miracolo. La mescalina, dice già molto: la visione in quanto rivelatrice è miracolosa, tuttavia è insieme miserabile poiché l’essere umano, per la sua “mediocre condizione”, non ha di per sé queste capacità. Michaux mette in pagina, tramite frammenti e disegni, una “schizofrenia sperimentale”. Lui, la mescalina, la sfida: “La mescalina e io, più che insieme eravamo spesso in lotta. Ero scosso, spezzato, ma non ci stavo”. Scrive frasi frammentate e immaginifiche. Vede figure umane fatte di “occhi, occhi, occhi e occhi” e “labbroni, labbroni, labbroni, labbroni”. Quelle che il peyote gli causa sono “immagini accecanti, lame di fuoco”. Quando poi l’effetto inizia a scemare, all’affollamento delle immagini, si sostituiscono “grandi campi di colore agitati”, come quando vede che “il rosa m’assedia, vuole leccarmi”.
Impressioni, queste, che si traducono immediatamente nei disegni. Creati con vari tipi di penne e inchiostri, spesso nero su carta color crema, assomigliano a mari mossi, mappe sismiche. Soprattutto, però, il più delle volte sembrano scale. “Una scala di dieci milioni di scalini, – annota Michaux – una scala fino al cielo” il cui scopo è “salire nell’assoluto”. Ovvio il riferimento all’immagine biblica della scala di Giacobbe, quella che il patriarca vide in sogno mentre fuggiva dal fratello Esau, che come ha illustrato Raffaello nella Stanza di Eliodoro, portava il Cielo divino sulla Terra degli uomini, permettendo agli angeli di salire e scendere. Parallelismo tutt’altro che blasfemo, se pensiamo che pure darsi alla mescalina può essere un atto di devozione e fede, credendo sempre a quella favoletta della salvezza finale. Ateo e iconoclasta, però, Michaux avverte: “La scala che saliva fino al cielo era poi sparita come bollicine di champagne”.