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 2025  agosto 13 Mercoledì calendario

Le regioni sono le rughe d’Italia


Paradossalmente, in Italia le rughe sono maggiormente evidenti nelle istituzioni più giovani, cioè le Regioni, che hanno acquisito una centralità nel dibattito politico che la loro giovane esistenza e il loro scarso rendimento non lasciavano presagire. L’Italia, infatti, non aveva nessuna tradizione regionale alle spalle. Esistevano, prima del 1861, 7 Stati di diversa grandezza, ma nessuna Regione attuale è sorta sul perimetro di quegli Stati preunitari, o perché troppo grandi (come l’ex territorio borbonico, da cui sono state partorite ben 7 Regioni) o troppo piccoli, come i Ducati di Parma e di Modena. L’unico territorio preunitario che si è quasi interamente ritrovato nella dimensione regionale è quello toscano.
Se 7 erano gli Stati preunitari, le Regioni sono 20. Ben 11 hanno una popolazione inferiore a quella della sola città di Roma. Una dimensione così sbilanciata impedisce di per sé una funzione di seria programmazione territoriale.
A quale precedente, dunque, si dovette far ricorso per delineare i confini regionali? Addirittura, a una suddivisione utilizzata a fini statistici dal medico Pietro Maestri nel 1864, che a sua volta riprendeva i confini delle Regioni militari dell’antica Roma. Dopo la presa di Roma, si aggiunse il Lazio alle 14 Regioni già individuate, che all’epoca inglobava anche l’Umbria. Durante i lavori della Costituente ne furono individuate altre tre ai confini dell’Italia: la Valle d’Aosta, il Trentino Alto-Adige e il Friuli Venezia-Giulia, e fu separata l’Umbria dal Lazio. E si arrivò a 19. Successivamente, nel 1963, fu apportata una modifica della Costituzione per scorporare il Molise dall’Abruzzo.
Come è stato possibile che istituzioni senza una storia alle spalle e senza un radicamento popolare siano diventate nel giro di qualche decennio così decisive nella politica italiana? È questo uno dei casi clamorosi in cui la maggiore visibilità di una istituzione non corrisponde minimamente alla sua utilità.
Guardiamo ai dati sulla divisione della spesa pubblica: 57 % Stato centrale, 30% Regioni, 8% Comuni, 2% province e aree metropolitane, 3% altro. Nel giro di pochi decenni le Regioni da “cenerentole” delle istituzioni si sono trasformate in luoghi di grande potere e risorse. La tradizione municipalista è stata letteralmente stravolta: Regioni ricche, Comuni poveri. La cosa assurda è che la spesa regionale è quasi interamente trasferita dallo Stato, diversamente dai Comuni che debbono concorrere con le tasse sui servizi alla tenuta dei loro bilanci. I presidenti di Regione spendono senza doversi procurare le risorse che generosamente erogano. Attraverso questa assurda condizione di privilegio i “governatori” hanno assunto un ruolo centrale nella politica italiana e all’interno dei partiti.
Vediamo in concreto lo scarto tra aspettative e risultati. Partiamo dal superamento del distacco tra politica e cittadini che fu una delle motivazioni principali del regionalismo. Nel 1970 votò alle prime elezioni il 90% degli aventi diritto, negli ultimi anni la partecipazione si è ridotta a poco più del 50%, con picchi di astensionismo sotto il 40%. In Liguria nel 2024 ha votato il 45, 97% mentre in Basilicata meno del 50%. In Abruzzo il 52,2% e in Sardegna il 52,4%. Partecipazione ancora più bassa si è registrata nel 2023 nel Lazio (il 37,20%) mentre nello stesso anno si sono recati a votare solo il 41,6% dei lombardi e il 48% dei molisani. Nel 2022 hanno votato per il nuovo presidente della Regione il 49% dei siciliani e nel 2021 il 44,33% dei calabresi. Nel 2014 in Emilia ha votato solo il 37,7% degli aventi diritto! Anche se all’interno di una costante caduta della partecipazione elettorale, si vota di più nelle elezioni politiche o in quelle comunali.
Passiamo alla sanità. Lo storico Silvio Lanaro in un suo libro (L’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988) ricordava che all’inizio degli anni Ottanta del Novecento la speranza di vita di chi risiedeva nel Nord era in media di quasi due anni inferiore rispetto a chi viveva al Sud. Attribuiva quella disparità alla “mortalità da progresso”, cioè al fatto che lo sviluppo industriale e lo stress da benessere causavano più tumori e infarti, mentre un ambiente più incontaminato e meno sfruttato industrialmente, come quello meridionale, consentiva quasi due anni di vita in più. Oggi si è letteralmente capovolta la situazione, ma ancora nel 2001 non era affatto così: i calabresi, i lucani, i pugliesi, gli abruzzesi e i molisani vivevano di più della media nazionale, mentre in Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Friuli Venezia-Giulia e Lombardia la durata della vita era inferiore alla media nazionale.
Cos’è cambiato in così pochi decenni per giungere a un ribaltamento del genere? Si può ragionevolmente pensare che possa avere inciso il diverso funzionamento della sanità dopo il passaggio alle competenze regionali? Indubbiamente, anche se assieme ad altri fattori. La regionalizzazione della sanità ci ha resi e ci rende diversi di fronte alla vita e alla morte. La questione era stata posta in maniera forte già nel 2016 dall’allora presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi: “I fattori di rischio per la salute restano distribuiti in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, la disponibilità e l’accesso ai servizi, invece, penalizzano i cittadini del Sud. Un esempio tipico dello sbilanciamento dell’assistenza sono gli screening oncologici. Coprono la quasi totalità della popolazione in Lombardia ma appena il 30% dei residenti in Calabria”. Si spiegherebbe così “il capovolgimento dell’aspettativa di vita degli ultimi decenni, dopo che per oltre un quarantennio il Paese ha omogeneamente guadagnato in media 2 mesi di vita l’anno”.
Un’altra delle potenzialità tradite dalle Regioni riguarda lo sviluppo complessivo dell’economia italiana. Certo, annoveriamo 4 territori fra i primi 50 in Europa per reddito (Trentino-Alto Adige, Lombardia, Valle d’Aosta, Emilia) ma anche 4 Regioni tra le peggiori 50 (Puglia, Campania, Sicilia e Calabria). Nel 2000, però, l’Italia contava ben 10 Regioni classificate tra le prime, e nessuna Regione italiana compariva nella classifica delle 50 peggiori. Anche in questo campo, le Regioni hanno la loro responsabilità per la forte incidenza sul debito pubblico e per la loro scarsa capacità di migliorare i fattori di competitività del sistema. Sta di fatto che le Regioni non sono servite al progresso del Sud, non sono state in grado di diminuire la distanza economica e nei servizi con le aree centro-settentrionali. Con la nascita delle Regioni nel 1970 il divario è aumentato.
Nate con l’ambizione di riformare lo Stato centrale e di promuovere una nuova classe dirigente, le Regioni si sono trasformate in uno di principali ostacoli al miglioramento delle funzioni pubbliche e stanno riproponendo una rifeudalizzazione della politica, ancora più accentuata nel Sud.
E mentre un tempo i politici regionali non vedevano l’ora di passare ad altri livelli, oggi è difficilissimo smuovere un presidente dal suo ruolo, anzi molti di essi vorrebbero restarci a vita. E anche se non hanno ottenuto il terzo mandato, provano con ogni mezzo a condizionare chi gli succederà.