Avvenire, 13 agosto 2025
Le parole “glamour” dell’itanglese
Nella satira, che riprende la vita reale, sia pure caricandola, può capitare di sentire che un giovane interrompa il padre, che smania davanti alla partita, con uno «scusa, puoi abbassare la voce, sono in smart working e sto facendo una call con il mio focus group
per una mission». Poi il padre scopre che i mestieri degli amici del figlio sono del tipo customer experience assistant, che alla fine è un commesso in un negozio.
Dall’inglese non si sfugge, tanto che il canale da cui abbiamo tratto, in sintesi, il gustoso siparietto, è del “Boomer milanese”, che riprende un termine in voga per indicare, in modo un po’ irridente, un nato nella generazione del baby boom. ma che ci si vuol fare, l’inglese dà un tono, è così glamour... che non può non aver a che fare con la grammatica. Il perché ce lo spiega lo storico della lingua italiana Maurizio Trifone, autore con Maurizio Dardano di una celebre grammatica italiana in Itanglese. Storie di parole da abstract a wine bar (Carocci, pagine 254, euro 21,00). Glamour, infatti, è un “prestito integrale”, che cioè il parlante italiano riconosce immediatamente come appartenente a una lingua straniera. Ciò di cui non si accorge, però, è che (data la connessione che in antico si riteneva esistesse tra arti magiche ed erudizione; si pensi a Faust negromante) dietro la parola si cela proprio “grammatica”, intesa come “lingua latina”. Attraverso il francese gramaire e grimoire (libro di magia) si è arrivati all’inglese glamour (incantesimo e poi fascino). E questo è solo un assaggio. Il libro è, infatti, un gustoso percorso nella storia degli anglicismi – e angloamericanismi – nella nostra lingua. L’intento, spiega lo studioso, non è quello di proporre sostituti, perché spesso l’anglicismo non è l’unica parola di cui il parlante dispone, ed egli dunque può scegliere, a patto di conoscere «le varie opzioni lessicali e i loro precisi valori semantici». Insomma, la consapevolezza della propria lingua è l’argine più importante – più che improbabili interventi dirigistici – al montare della marea albionica su labbra italiche. Ecco dunque abstract, il primo della serie di vocaboli e locuzioni, che appare ben consolidato nel suo significato di “sintesi di un articolo pubblicato su rivista specializzata”, rispetto al quale appaiono come troppo generici lo stesso “sintesi” e “riassunto”. Ci sono, al contrario, parole come body guard, che non hanno mai preso il sopravvento (e gli studiosi si interrogano sul perché sia stata introdotta) sul corrispettivo “guardia del corpo” della lingua italiana, che ha pure a disposizione dagli anni Cinquanta, “gorilla”, adattamento dal francese. E difficilmente troverete un’alternativa a post-it, nome commerciale che designa il quadratino per appunti (dal nome proprio al nome comune, insegnava Bruno Migliorini). Tale è stato il successo dell’oggetto da imporre anche la parola, a meno di non ricorrere a perifrasi come “Bigliettino promemoria adesivo rimovibile” E a meno che non siate Aldo Duro, lessicografo «notoriamente avverso agli anglicismi» che propose “giallino”, termine accolto nel Devoto-Oli e, sia pure in àmbiti ristretti, sopravvissuto. Contrariamente a quanto preconizzava un collega che gli dava la stessa scarsa probabilità di riuscita di “rullovaligia” al posto di trolley e “fusopatia” per jet lag. Trifone riporta infine, una lettera al “Corriere della sera” (i giornali sono, con dizionari e repertori, i principali serbatoi a cui lo studioso attinge): «Papà come si dice ok in inglese?». Il genitore esprimeva una preoccupazione per l’invasione british diffusa tra gente comune e studiosi sin dagli anni Sessanta con parole macedonia come “italiaricano”, “italese”, “itangliano” o l’“itanglese” che dà il titolo al libro.
Dopo il neopurismo di Migliorini, Arrigo Castellani nel 1987 ne propose uno «strutturale» rivolto a ogni singola parola, lamentandosi in un articolo del morbus anglicus, che avrebbe infettato la struttura stessa dell’italiano. Castellani proponeva una serie di parole sostitutive, alcune esistenti, altre create appositamente (come “abbuio” per blackout).
Ne era seguita una, garbata, polemica con il suo allievo Luca Serianni che, nello stesso anno, non sposò le tesi del maestro, notando la scarsa incidenza dell’inglese al di fuori dei linguaggi tecnicoscientifici. Anche l’“aperturista” Tullio De Mauro polemizzò, realizzando un testo ironico, ma non irridente – con le sostituzioni proposte dal collega. Ma alla fine, nel 2016, gli diede ragione constatando che in dieci anni gli anglicismi nel lessico di base erano passati da poche unità a oltre cento (in ambiti come informatica, cibo – o food? – moda, sport...). E parlò
di tsunami anglicus.
Tra le due strade Trifone ricorda anche una via “dal basso”, come la petizione “Dillo in italiano” lanciata nel 2014 dalla pubblicitaria Annamaria Testa, in seguito alla quale l’Accademia della Crusca ha lanciato il gruppo “Incipit”, che ha il compito di esaminare i neologismi stranieri. Di fronte alla diagnosi di Castellani e alla denuncia di De Mauro, conclude Trifone, «viene spontaneo chiedersi se l’attaccamento degli italiani verso un fattore fondamentale della propria identità, qual è la lingua, simbolo primario di appartenenza a una determinata comunità, non sia minore di quello che provano altri popoli».