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 2025  agosto 14 Giovedì calendario

E la Scapigliatura difese il romanzo brutto di Garibaldi



La Scapigliatura, che alcuni considerano la prima avanguardia italiana, è una delle correnti della nostra storia letteraria più ricche di figure ed esperienze diverse, tanto che non tutto è stato studiato e adeguatamente valorizzato. Il territorio scapigliato appare perciò in gran parte ancora da dissodare, nonostante l’attenzione che la critica ha dedicato a questo movimento culturale soprattutto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso (al 1967 data la pubblicazione della fondamentale monografia di Gaetano Mariani, Storia della Scapigliatura). All’interno dell’ultima generazione di ricercatori che si sono impegnati in àmbito scapigliato occupa un posto di primo piano Monica Schettino, che si è dedicata in particolare al versante piemontese del movimento. Nel 2008 aveva curato per Interlinea il carteggio tra Achille Giovanni Cagna e Giovanni Faldella, e ora di quest’ultimo pubblica i testi di due interventi tenuti presso la Società “Dante Alighieri” di Torino il 20 e 27 marzo 1870 in un volume dal titolo Clelia o il Governo del Monaco (Roma nel secolo XIX). Romanzo storico politico di Giuseppe Garibaldi (illustrazioni di Lino Di Lallo, Il Formichiere, pagine 104, euro 20,00). I due discorsi di Faldella – pronunciati in risposta ai detrattori delle qualità letterarie di Garibaldi, tra i quali Giuseppe Giacosa – ruota attorno a Clelia, il governo dei preti, il primo dei quattro romanzi scritti da Garibaldi, uscito nel 1870 prima a Londra e poi a Milano. Il contenuto del libro era apertamente anticlericale, avendo per protagonista una popolana romana (di nome Clelia, come la figlia avuta nel 1867 da Francesca Armosino), insidiata da un cardinale di spiriti libertini. L’opera, scritta perché l’autore aveva bisogno di denaro, non è esattamente un capolavoro.
Richiesta da Garibaldi di un giudizio sul manoscritto, l’amica scrittrice Marie Espérance von Schwartz (meglio conosciuta con lo pseudonimo di Elpis Melena) lo giudicò talmente brutto da scongiurare l’autore di non pubblicarlo.
Quando il libro uscì, Vittorio Bersezio scrisse che esso era inficiato da una «deficienza assoluta di creazione» e che Garibaldi non aveva «più il diritto di compromettere con simili miseri capricci, con siffatti adescamenti alla pubblica curiosità, la grande autorità del suo nome». Il romanzo fu però apprezzato da altri per l’intento ideologico di cui era innervato: stigmatizzare la corruzione e il malgoverno della curia romana, in funzione repubblicana e patriottica (ricordiamo che la questione romana era ancora aperta). Tra costoro si colloca Faldella, che si incarica di difendere l’eroe dei due mondi all’interno di una discussione che occupò più riunioni della “Dante Alighieri”, cenacolo torinese della migliore gioventù letteraria del tempo.
Faldella ammette che la scrittura di Garibaldi è «affatto senza colorito», ma la difende proprio per questa ragione, in nome della sua semplicità, «dote oraziana del nuovo scrittore». D’altra parte – aggiunge impegnato com’era nel campo militare, come avrebbe potuto Garibaldi aver tempo di prepararsi adeguatamente in quello letterario? A un uomo di tale statura, bisogna perdonare tutto. Nella sua postfazione, però, Monica Schettino insinua maliziosamente un dubbio: essendo Faldella un giovane avvocato, non possiamo escludere che egli abbia sposato la causa di Garibaldi scrittore «più per sfida, forse per mettere alla prova le proprie doti oratorie, che non per una stima concreta» del suo romanzo. Con una prefazione di Bruno Quaranta esce invece per i tipi di Aragno un’opera di Carlo Dossi, altro scapigliato che con Faldella ha in comune l’accentuato gusto per lo sperimentalismo: La colonia felice. Utopia lirica (pagine 110, euro 15,00). Uscito per la prima volta nel 1874, il libro racconta di un gruppo di criminali deportati su un’isola deserta, dove si trovano costretti a vivere tra loro. In breve tempo, ristabiliranno regole, leggi e pene severe per chi le trasgredisce.
Percorso da un bisogno russoviano di palingenesi, è un romanzo a tesi, in seguito ripudiato dall’autore quando aderirà al positivismo scientifico. Fu molto apprezzato da Carducci, che vi vide «la più ampia e vigorosa concezione di romanzo» avutasi da molti anni, mentre fu criticato da Capuana per ragioni stilistiche e da Croce che gli imputò un’eccessiva astrattezza, ritenendo che i personaggi vivessero soltanto in funzione del loro valore simbolico. Ad ogni modo siamo anche qui di fronte a un gustoso repêchage dal mare magnum scapigliato.