la Repubblica, 7 agosto 2025
Almasri e le cinque versioni cambiate dal governo per uscire dall’angolo
Hanno deciso i giudici. Anzi no, ha sbagliato la Corte di appello internazionale nell’interlocuzione con i giudici della corte d’Appello. Meglio: quelli della Cpi hanno presentato una richiesta di cattura «piena di errori materiali che non poteva essere in nessun modo validata». No, il motivo è un altro ancora: c’era una richiesta di estradizione libica e dunque il trafficante non poteva essere consegnato al tribunale dell’Aia ma andava rimandato a Tripoli. Infine: la vera ragione per cui Almasri è stato liberato è «lo stato di necessità», perché si temeva per la sicurezza dei circa 500 italiani che vivono in Libia.
Gli atti depositati alla Camera dal tribunale dei ministri, con i quali viene chiesta l’autorizzazione a procedere nei confronti del sottosegretario Alfredo Mantovano e dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, mettono in fila tra le altre cose tutte le giustificazioni offerte dal governo all’opinione pubblica, al Parlamento, alla Cpi e infine proprio al tribunale dei ministri per giustificare la scarcerazione del torturatore libico. La prima, nell’immediatezza dei fatti, quando cioè sui giornali rimbalzarono le fotografie del capo della Rada accolto come fosse una star nell’aeroporto di Tripoli, fu lo spin fatto arrivare ai giornali. Che in quelle ore scrivevano: «Non prendetevela con noi. Hanno fatto tutto i magistrati della Corte di appello di Roma». Non era una menzogna. Effettivamente Almasri era stato liberato dai giudici. Ma quello che il governo non aveva raccontato, si scopre ora, è che in più occasioni i giudici (formalmente e informalmente) avevano sollecitato un intervento per sanare la questione. E che il ministero si era rifiutato di farlo. Dunque, è vero che erano stati i giudici. Ma la scelta era stata tutta politica.
È il 23 gennaio quando, pressato dalle opposizioni e dall’opinione pubblica, il ministro Piantedosi si presenta in aula. «La decisione di scarcerare Almasri è stata presa dalla magistratura per un errore commesso dalla Corte penale internazionale», dice. Una versione in parte diversa dalla prima ma che, anche in questo caso, non regge. Al protocollo del ministero della giustizia c’è infatti l’atto preparato dagli uffici di via Arenula che avrebbe sanato il problema. Ma rimasto invece lettera morta. La responsabilità rischia quindi di ricadere tutta sulla capa di gabinetto, Giusi Bartolozzi. E questo il ministro Carlo Nordio non può permetterlo. Anche perché nel frattempo si sono mosse la Procura e il tribunale dei ministri e, dunque, il piano è diventato più scivoloso.
Nell’informativa alla Camera del 5 febbraio rivendica la scelta. La sua, dice, è una stata dettata dai «numerosi errori, anche materiali», contenuti nella richiesta di arresto della Cpi. Rivendicando quindi la mancata interlocuzione con la corte d’Appello di Roma. Il ministero non ha volutamente interloquito perché non voleva sanare un atto che riteneva nullo. «Io non faccio da passacarte» conclude. «E invece – scrive il tribunale dei ministri – contrariamente a quanto sostenuto dal ministro Nordio in Parlamento, la legge, pur conferendo a lui il compito di curare in via esclusiva i rapporti dell’Italia con la Cpi e di dare impulso alla procedura, non gli attribuisce alcun poterediscrezionale».
La quarta versione, è invece contenuta nella memoria difensiva alla Cpi: si dice che non abbiamo consegnato Almasri perché anche la Libia ne aveva chiesto l’arresto. Ma «la richiesta è stata protocollata il 22 gennaio quando Almasri era stato già rimpatriato» dice il tribunale dei ministri. Una farsa, quindi, ancora più se si valuta che «si trattava di una richiesta meramente strumentale, priva di qualsiasi documento giustificativo e allegazioni documentali. E, quindi, non avrebbe mai potuto trovare accoglimento».
È del 30 luglio, invece, il tentativo finale, «quando per la prima volta il governo sostiene espressamente lo stato di necessità» come ragione del rimpatrio, si legge ancora nella richiesta di autorizzazione. Uno «stato di necessità» che, però, secondo i magistrati non esiste. È la quinta versione diversa. Chissà se sarà l’ultima.