la Repubblica, 7 agosto 2025
Breve storia del fico
Nella tavola che Cranach il Vecchio dipinse per raccontare la storia dei progenitori, Il Paradiso(1530), l’Albero della conoscenza è rappresentato da due frutti; a destra c’è un pomo e a sinistra uno più piccolo di forma allungata: è un fico. L’artista tedesco è stato fedele al passo di Genesi (3,7): «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e ne fecero cinture». Un secolo prima Masolino da Panicale, affrescando la Cappella Brancacci, aveva posto Adamo ed Eva sotto un albero di fico, cosa che fece anche Michelangelo nella volta della Cappella Sistina (1508-12). Quale sia stato il frutto che i due mangiarono resta tuttavia incerto, per quanto, come testimoniano gli artisti, nel Paradiso Terrestre il fico c’è.
La domesticazione di questa pianta xerofila – Ficus carica il suo nome scientifico – della famiglia delle Moraceae, risale al Neolitico. Nel sito di Gilgal, vicino all’antica Gerico, sono stati trovati reperti della sua presenza datati undicimila anni fa. Il nomecarica indica la possibile provenienza da una regione dell’Anatolia, Caria, in Turchia, per quanto molti botanici propendano per un’origine dalle aree del Caucaso e dal Bassopiano turanico. Il fico sopporta basse temperature e cresce con poca acqua; si ritiene che sia apparso prima della vite e dell’olivo, pianta cui si accompagna, tanto da contribuire a disegnare col suo esteso cappello il paesaggio mediterraneo, ricorda Predrag Matvejevi?.
Nel territorio della Palestina era dunque una presenza consueta, come certificano innumerevoli citazioni bibliche. Nel Vangelo di Matteo c’è però un curioso episodio. Gesù, desideroso di assaggiare il suo frutto dolcissimo, non lo trova pendente dai rami, ragione per cui maledice la pianta: «Non nasca mai più frutto da te». Il fico si secca immediatamente sconcertando i discepoli del Messia. Probabilmente Gesù non conosceva la complessa natura di questo albero. Il frutto del fico è detto siconio ed è un “falso frutto”, una infruttescenza composta da un complesso di frutti. I “veri frutti” sono invece gli acheni, giallastri, che contengono i semi e devono essere fecondati per avere una dimensione maggiore. Due sono le sottospecie di fichi: il caprifico (
Ficus carica caprificus) e il fico domestico (Ficus carica sativa). Il primo è il fico selvatico che non produce frutti commestibili, possiede invece il polline ed è il fico maschile. L’altro, quello più comune, è una pianta femminile, e può produrre i semi fertili, che sono inclusi nei frutti commestibili. Le due sottospecie hanno due tipologie diverse di fiori. Nelle infruttescenze del fico domestico – fioroni e fichi veri – ci sono i fiori femminili fertili; il caprifico – mamme, mammoni e profichi – possiede una maggiore varietà di tipologie floreali. Ad aiutare la fecondazione del fico, tuttavia provvede il caprifico, o meglio un moscerino – un imenottero – che si sposta dal caprifico al fico, entra per deporre le sue uova e «così lo imbratta del polline dei fiori maschili» (Barbera). Una spiegazione precisa ed esauriente richiederebbe, oltre una competenza lessicale e botanica, parecchio spazio, fatto sta che senza l’insetto noi non mangeremmo questa concentrazione di vitamine, calcio, potassio e magnesio che per oltre mille anni ha alimentato l’umanità col suo alto valore calorico, prima della coltivazione dei cereali e dei legumi.
Oggi i fichi non rappresentano più un alimento decisivo, specie nella forma essiccata, che si trova in commercio soprattutto sotto Natale. Chissà se la complessità della fecondazione, e la divisione tra i due tipi di fico, è connessa a un aspetto che Aristotele aveva indicato: la parentela tra il fico e l’organo genitale femminile. Come ricorda Giuseppe Barbera anche la foglia di fico, indossata da Adamo ed Eva per nascondere il sesso, richiama la forma del membromaschile, mentre il lattice biancastro, che si produce nel frutto, ricorderebbe lo sperma. Nelle feste dionisiache insieme alla brocca di vino, alla vite, al capro c’era anche un paniere di fichi e un fallo scolpito nel legno della medesima pianta.
Tra le varie civiltà succedutesi nel Mediterraneo quella greca è quella che ha più incluso il fico nella propria letteratura, nelle decorazioni e nei miti. I Greci ritenevano la pianta un dono di Dioniso e la collegavano a Priapo, dio della fecondità. A Eleusi era piantato il fico sacro a Demetra, protetto da un portico; a Roma era presente nel Foro, ma se fosse morto sarebbe stato subito rinnovato, riferiscono Plutarco e Plinio. La cesta di Romolo e Remo, che correva sulle acque, si era arrestata contro le radici di un fico selvatico, così che i due vennero allattati dalla lupa sotto la chioma dell’albero, come si vede in un quadro di Rubens (1612). Platone ne parla come di un frutto perfetto per i filosofi, ed è documentata la sua spasmodica passione per questo dono dell’albero. Anche per il fico, pianta e frutto, è cominciata da tempo la decadenza. Oggi è sempre meno coltivato e la ragione principale risiede nella difficoltà di distribuire i fichi come richiede la moderna agricoltura industriale. Lo si trova dai fruttivendoli, ma deperisce in fretta, per cui va mangiato presto. La sua facile deperibilità servì a Catone per dimostrare la vicinanza di Cartagine, così da chiederne la distruzione nella terza guerra punica. Portò in Senato i fichi freschi e interrogò il consesso: «Quando pensate che questo frutto sia stato colto dall’albero? Tre giorni fa a Cartagine. Tanto vicino alle mura abbiamo il nemico!».
Oggi i tre grandi tipi di varietà (Smirne, Comune, San Pedro), a loro volta divisi in sottotipi, sono sempre meno. I principali produttori sono Turchia, Algeria e Marocco; poi vengono Egitto e Spagna. In Italia la produzione è intorno alle diecimila tonnellate annue (50 per cento in Campania e 20 in Puglia). È un altro simbolo che viene meno, con il suo patrimonio di consuetudini, tradizioni e feste. La cultura mediterranea sta declinando, e solo al tramonto le civiltà vengono celebrate e studiate. In Puglia, all’interno del Duomo di Otranto, citato da Carlo Ginzburg inStoria notturna (1989), libro dedicato al sabba e ai riti sciamanici, il monaco Pantaleone (1163-1165) ha realizzato a mosaico l’albero della vita che incornicia l’intera storia biblica. In uno dei sedici medaglioni sono raffigurati Adamo ed Eva nudi; hanno in mano frutti e sono circondati da rami e foglie. L’albero è, ovviamente, il fico.