la Repubblica, 7 agosto 2025
“Migranti e affari ecco perché i ministri mentirono alla Cpi”
L’Italia aveva con la Rada, la milizia libica guidata da Osama Almasri, un rapporto speciale. «Una collaborazione molto proficua» la definisce il direttore dell’Aise, Giovanni Caravelli, nel suo verbale. Erano loro a gestire e controllare i traffici di migranti. Loro in grado di decidere quanti barconi fare o non fare partire. Loro a vigilare sui «traffici di oli combustibili e stupefacenti» e più in generale sugli «interessi italiani in Libia», in particolare quelli dell’Eni. Loro a sovrintendere anche sulla «sicurezza per i cittadini italiani». È quello che il prefetto Caravelli, poche ore dopo l’arresto del torturatore libico, ritiene «di portare all’attenzione dell’autorità delegata e alla presidente del consiglio». È in quel momento, secondo la ricostruzione del tribunale dei ministri, che comincia una lunga catena di «omissioni», «dichiarazioni mendaci», «contraddizioni», «atti irrazionali» che portano il governo e in particolare l’autorità delegata, il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio e quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, ad «aiutare Almasri a sottrarsi al mandato di arresto internazionale della Cpi ed a eludere le investigazioni della medesima Autorità».Il verbale di CaravelliGran parte dell’indagine ruota attorno all’audizione del direttore dell’Aise. Che racconta cosa accadde tra il 19 e il 21 gennaio in una serie di incontri a Palazzo Chigi alla presenza di Mantovano, dei ministri, del capodella polizia Pisani e del prefetto Rizzi, numero uno del Dis. In quell’occasione Caravelli spiega che l’agenzia lavorava da tempo con la Rada. E parlava di possibili ritorsioni: «La sicurezza dei circa cinquecento italiani in Libia». La sicurezza delle coste. E la tutela degli «interessi italiani stanziali in Libia». «Gestendo l’attività di polizia giudiziaria, la Rada avrebbe potuto effettuare dei “fermi” di nostri cittadini all’ingresso nel paese e sul territorio libico o perquisizioni negli uffici dell’Eni».Il segreto che non c’eraÈ questo il motivo, spiega ai magistrati la capa di gabinetto di via Arenula Giusi Bartolozzi, per cui quando le comunicano della richiesta della Cpi, lei ordina di stare immobili. Non protocollare nulla. E parlare solo su applicazioni di chat criptate. «Basta, basta, basta! Non comunicate più! Utilizzi Signal. E non faccia altro, si fermi così», grida a una dirigente del ministero. «Avevamo avuto l’indicazione da Servizi e da Chigi di non diffondere la notizia», spiega a verbale. «C’era il problema del segreto di Stato». Non c’era, le fanno notare le magistrate. «Eh vabbè. Io lo ritenni un segreto. Poi se è stato apposto o meno, non sono io a doverlo dire».La bugia di NordioQuello del “segreto di Stato”, che però non esiste, è anche il motivo che Bartolozzi adduce per la mancata interlocuzione di Nordio con la Cpi. Che, si scopre oggi, in quelle ore aveva più volte sollecitato l’interlocuzione. Tanto da fissare una call, per il tramite di alcuni dirigenti della Farnesina che nulla sapevano della decisione dello stop, con un funzionario, Nayyer Nolte, che si era anche collegato su google meet ma era rimasto senza interlocutore dall’altra parte. Da quel momento, il tribunale dei ministri elenca una serie di omissioni a carico di Nordio. «Non rispose al procuratore generale della Corte di appello di Roma» che gli aveva sollecitato un’interlocuzione. «Non ripose alle plurime richieste dei funzionari della Cpi». «Non informò la Cpi della richiesta di estradizione». «Decise di attendere la Corte di appello» restando immobile, sapendo che in questa maniera non potevano che scarcerare Almasri. «Ma – dicono i giudici – contrariamente a quanto sostenuto dal ministro in Parlamento e nella memoria difensiva la legge non gli attribuisce alcun potere discrezionale». Per citare le parole di Nordio alle Camere: doveva essere un passacarte.Le menzogne sull’espulsioneUna volta scarcerato Almasri, è stato detto che bisognava espellerlo immediatamente per ragioni di sicurezza nazionale. Insieme con i suoi amici. Tanto da predisporre il volo di Stato. Ma, segnala il tribunale dei ministri, ci sono moltissime cose che non tornano. «Esaminati i decreti di espulsione adottati nei confronti dei tre cittadini stranieri fermati insieme all’Almasri, emerge come le motivazioni poste a fondamento siano del tutto sganciate da concreti elementi di fatto» scrive il tribunale dei ministri: non avevano precedenti, erano già stati in Europa, in Italia erano stati già fermati dalla Polizia. Avevano contanti e carte di credito, avevano già concordato la consegna dell’auto. Perché accompagnarli a casa con un volo di stato?I documenti taroccatiPerché, secondo quanto ha ricostruito l’Italia, è per loro che si è mosso inizialmente il volo dei Servizi. Ben prima che il tribunale scarcerasseAlmasri. «Dato storico agli atti è che i tre sono stati accompagnati mediante volo Cai su disposizione dell’Autorità delegata, Mantovano. Per il resto vi è contrasto tra l’appunto consegnato da Aise, da cui risulta che tale volo sarebbe stato richiesto proprio per eseguire l’espulsione dei tre. E quanto successivamente da Caravelli secondo cui il volo sarebbe stato richiesto solo per l’Almasri». Ancora: l’espulsione è considerato «un atto irrazionale». Perché «hanno ricondotto il ricercato Almasri, libero, lì dove avrebbe potuto continuare a perpetrare condotte criminose analoghe a quelle di cui era già accusato».I soldi sprecatiE lo hanno fatto a spese degli italiani. C’erano infatti voli di linea da utilizzare. E non lo hanno fatto. «La motivazione dell’utilizzo del volo per ragioni di sicurezza nazionale ha costituito una mera copertura formaledel fatto che l’aereo sia stato utilizzato e, con ciò, distratto e il carburante necessario impiegato per una finalità illecita: aiutare Almasri a sottrarsi all’arresto».Il “non” stato di necessitàPer provare a salvarsi, nella memoria difensiva depositata il governo prova a introdurre il tema dello “stato di necessità”, citando i «pericoli paventati dall’intelligence». Come a dire: lo abbiamo fatto, perché costretti. «Ma la rilevanza dello stato di necessità deve basarsi su un criterio oggettivo» dicono i giudici, «che in questo caso non c’era. Il parallelismo con il caso di Cecilia Sala – già arrestata e posta in carcere in Iran, apparentemente senza alcun motivo, come ritorsione, questa sì concreta e attuale, all’arresto del cittadino iraniano operato in Italia – conferma al contrario che non vi era alcun pericolo concreto e attuale».