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 2025  agosto 06 Mercoledì calendario

La posta in gioco nel caso Almasri

Iconsueti conflitti tra politica e giustizia sono tutto tranne che una novità. Si ripetono puntuali come le stagioni e oggi non si può nemmeno dire che siano un fucile puntato contro la destra: le inchieste di Milano e delle Marche (adesso anche della Calabria, dove governa il centrodestra) hanno aggiunto colore alla tavolozza. Quanti hanno una fiducia assoluta nella giustizia e nell’agire delle procure abbracceranno la versione più rispettosa: le indagini sono neutre, quindi non servono a puntellare un’opposizione debole rispetto a una maggioranza forte; di conseguenza, è la tesi sottintesa, lo scontro con la politica non ha motivo di esistere, a meno che non sia quest’ultima a innescarlo per proteggere interessi non sempre legittimi.
Chi è meno ottimista preferirà una versione più smaliziata: la magistratura e quindi le procure stanno combattendo una battaglia decisiva per auto-proteggersi. Ossia per difendere un sistema di potere che negli anni si è consolidato, ma che per la prima volta rischia sul serio di incrinarsi. Se questo è vero, anche solo in parte, occorre guardare con occhi attenti quello che succede. Non sarebbe strano allora l’esito a cui si è approdati fin qui circa l’inchiesta Almasri, dal nome del funzionario libico gravato da una fama meritata come torturatore e seviziatore di migranti. Ma come tutti i pessimi soggetti che agiscono nella zona grigia tra polizia e apparati di sicurezza in un paese come la Libia, anche Almasri si è fatto beffe della legge.
La vicenda è nota e non la ripeteremo. La sostanza è che mesi fa il libico, ricercato dalla Corte penale internazionale, fu catturato in Italia e poi rilasciato. Una storia in cui non si è mai capito di chi siano le responsabilità, anche se è abbastanza chiaro che il personaggio ha goduto di uno status privilegiato per via dei suoi rapporti oscuri in Europa e in Italia. Diciamo che ha prevalso la ragion di Stato, altrimenti detta realpolitik. Di fatto la magistratura ha indagato, prendendosi tutto il tempo necessario, e ora ha chiamato davanti al Tribunale dei ministri Piantedosi, Nordio e il sottosegretario alla presidenza Mantovano. Il tema è delicato, ma con un aspetto da non trascurare. È rimasta fuori dall’inchiesta la premier Meloni: i magistrati non ritengono che lei abbia giocato «un ruolo attivo» in quelle concitate ore. Può essere uno scrupolo di correttezza o magari, viceversa, un’astuzia da valutare per quello che è.
Qualcuno ricorderà che nel 1994 il neo presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, a Napoli per una conferenza sulla criminalità, ricevette un avviso di garanzia che ne minò gravemente la credibilità. Oggi, se vogliamo restare sulla pista maliziosa, la magistratura evita passi falsi. Non coinvolge la premier, ben sapendo peraltro che accanto ai temi giudiziari esiste «una responsabilità politica», come ha detto il presidente della Anm. Quindi senza far deflagrare la mina si ottiene lo stesso l’effetto logoramento ai danni del vertice dell’esecutivo. La storia sarebbe finita qui, ma Giorgia Meloni è passata al contrattacco. Ha i numeri, come è noto, per respingere in Parlamento le richieste dei magistrati.
Del resto, se è una guerra, occorre attendersi altri colpi. Dall’una e dall’altra parte.
Il governo procede sulla riforma della giustizia e quindi sulla “separazione delle carriere”. È questo che scatena l’ostilità di cui vediamo le manifestazioni?
Non proprio. Ciò che tanti non riescono ad accettare è il venir meno del potere delle correnti. Per cui si combatterà fino all’approvazione in Parlamento (altre due letture) e oltre. La vera posta in gioco è il referendum. Oggi sembra prevalere il “no” di poco.
Ma di qui ad allora si combatterà la vera battaglia. Se vince l’opposizione per il governo sarà una disfatta politica. Se si afferma Giorgia Meloni, sarà come una spinta ad andare avanti con altre riforme in chiave di presidenzialismo.