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 2025  agosto 06 Mercoledì calendario

Almasri e l’incontro con i servizi

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La decisione è stata «irrazionale», l’aereo di Stato utilizzato per un «fine illecito». Il governo è stato mosso da un unico obiettivo: «Evitare le ritorsioni della Libia».È quello che ricostruiscono nelle 91 pagine di richiesta di autorizzazione a procedere i giudici del tribunale dei ministri. Un lungo elenco di «omissioni», bugie e «dichiarazioni mendaci» che avrebbero caratterizzato le condotte del sottosegretario alla presidenza, Alfredo Mantovano, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e quello della Giustizia, Carlo Nordio. Ma anche la sua capa di gabinetto, Giusi Bartolozzi, che seppur non indagata è accusata di aver mentito ai magistrati.La circostanza cruciale ricostruita nel documento è una riunione che si è tenuta a Palazzo Chigi il 19 gennaio, poche ore dopo l’arresto di Almasri a Torino. A raccontarla ai magistrati è il numero uno dell’Aise, il prefetto Giovanni Caravelli. «Avuta notizia dell’arresto – scrivono i giudici – c’era stata una video-conferenza acui avevano partecipato, oltre a Caravelli, Mantovano, i ministri dell’Interno e degli Esteri, Piantedosi e Tajani, il capo della Polizia, Vittorio Pisani, ed il prefetto Rizzi, direttore generale del Dis». Senza il Guardasigilli. In questa riunione, così come quelle avvenute nei due giorni successivi, Caravelli parla «di possibili manifestazioni e possibili ritorsioni nei confronti dei circa cinquecento cittadini italiani che in qualche maniera vivono a Tripoli o arrivano a Tripoli o in Libia, nonché nei confronti degli interessi italiani. In relazione a questi ultimi – si legge nel documento – riferiva specificatamente dello stabilimento gestito in comproprietà da Eni e dalla National Oil libica sito a Mellitah, vicino al confine con la Tunisia, sottolineando che la Rada Force aveva una collaborazione con le forze di sicurezza che operavano nell’area di quello stabilimento». Ma a che ritorsioni fa riferimento? «Ricordando il recente precedente di Cecilia Sala arrestata in Iran», si legge nel documento, «ipotizzava che la Rada Force, gestendo l’attività di polizia giudiziaria, avrebbe potuto effettuare dei “fermi” di nostri cittadini all’ingresso nel Paese e sul territorio libico o perquisizioni negli uffici dell’Eni». Dunque arrestato Almasri, l’Italia teme una ritorsione libica. E per questo si attrezzaper scarcerarlo. Una ricostruzione, questa, però sempre negata dal nostro governo con Piantedosi che in Parlamento aveva smentito «nella maniera più categorica che, nelle ore in cui è stata gestita la vicenda, il governo abbia mai ricevuto alcun atto o comunicazione che possa essere anche solo lontanamente considerato una forma di pressione indebita assimilabile a minaccia o ricatto».E invece, scrive il tribunale dei ministri, «appare verosimile che l’effettiva e inespressa motivazione degli atti sia da rinvenirsi nelle preoccupazioni palesate dal prefetto Caravelli sulle possibili ritorsioni per i cittadini e gli interessi italiani in Libia. Ma è evidente che, così facendo, i citati, nelle rispettive qualità, hanno tutti concorso nell’aiutare Almasri a sottrarsi al mandato di arresto internazionale della Cpi e ad eludere le investigazioni». Dagli atti emerge infatti come, di fronte a quelle che il tribunale dei ministri definisce legittime perplessità della Corte d’appello di Roma sull’irritualità del fermo di Almasri, il ministero della Giustizia scelga scientemente di non sanare la situazione. E Nordio ne era «pienamente consapevole». Davanti infatti a un atto preparato dall’ufficio, che la Bartolozzi sostiene di non aver fatto leggere al ministro («dichiarazioni inattendibili e mendaci» le bolla il tribunale), Nordio ha scelto «un silenzio indebito», non avendo secondo i giudici «alcun potere discrezionale» sul mandato della Cpi. Con la sua condotta, per le toghe, ha arrecato «un danno all’effettivo esercizio dell’amministrazione della giustizia».Di più: «Almasri non avrebbe mai potuto essere espulso, né tanto meno accompagnato in patria su disposizione di due alte cariche dello Stato» perché non vi era alcuna ragione di pericolo per la sicurezza nazionale. Così come non regge la giustificazione del rimpatrio per la doppia richiesta di estradizione (Libia e Cpi) come ha provato a difendersi l’Italia davanti alla Corte penale: quella libica è stata «protocollata dopo l’espulsione di Almasri». Infine, sull’aereo di Stato: non c’erano esigenze di sicurezza. «I collegamenti con la Libia erano da tempo assicurati da più compagnie con voli, anche diretti, più volte la settimana (…) Qualunque aereo avesse riportato in patria Almasri, sarebbe stato accolto in modo festoso, come in effetti avvenuto».