la Repubblica, 5 agosto 2025
In volo con gli aiuti su Gaza
I lanci di cibo col paracadute sono fotogenici. Vengono bene nelle foto, riempiono l’inquadratura, offrono a chi osserva una simbologia basilare e rassicurante: l’aiuto dal cielo, il cibo che sfama, il paracadute salvatore di esseri umani che precipitano. E chi precipita più dei palestinesi di Gaza? Eppure, quando le otto vele si aprono una dopo l’altra e rimangono sospese sulla città morente, non si può fare a meno di pensare che questa è, né più, né meno, la cronaca di una sconfitta.Una sconfitta collettiva mascherata da prova di forza, il pericoloso e spettacolare arabesco aviatorio che sostituisce la più efficace linea retta terrestre. L’alibi che permette ai governi d’Europa di allontanare le accuse di inerzia nei confronti della popolazione della Striscia di Gaza, afflitta dalla carestia e da ventuno mesi di bombe di Israele. In altre parole, un aereo da guerra invece di un camion.Le quattro potenti turboeliche del C-130 Hercules giordano ovattano la cabina e annunciano l’avvicinamento a chi, a Gaza City, guarda su e annusa il vento per prevedere dove atterrerà la farina. Si teme su una tenda, è già successo. Non è escluso il mare, in cui è proibito immergersi. La speranza è che finisca su uno dei pochi metri quadrati ancora vuoti nella Striscia ristretta, dove 2,1 milioni di persone sopravvivono compresse nel 12 per cento del territorio perché tutto il resto è occupato militarmente o soggetto a ordine di sfollamento. Gli aiuti vengono paracadutati nelle zone più colpite e meno accessibili ai convogli: i gazawi calcolano a naso le traiettorie, per capire se quei carichi finiranno sulla loro testa o se toccherà correre più degli altri per afferrare qualcosa.Il volo sulla fame è operato dalla Royal Jordanian Air Force, giordano anche ciò che trasporta: otto tonnellate di farina, riso, olio, lenticchie e kit sanitari per l’infanzia, impacchettate e fornite dalla Jordan Hashemite Charity Organization. Ogni pallet pesa una tonnellata. «Erano fermi nei nostri depositi da marzo, quando Netanyahu ha imposto il blocco totale durato undici settimane», spiega, prima della partenza, il dottor Hussein Al Shebli, il segretario generale della ong di Amman.Volo umanitario numero 289, il settimo della giornata. Il quadrimotore, soprannominato Guts Airlines da una scritta sulla carlinga (traducibile con: “linea aerea del coraggio”) decolla alle 11.15 della mattina dalla base Re Abdullah II, nel deserto di Zarqa. A bordo c’è anche Repubblica. Da quando, a fine luglio, il primo ministro dello Stato ebraico ha dato l’ok a riprendere i lanci dal cielo, pur negando che i palestinesi stiano morendo per inedia e attribuendo alla propaganda di Hamas le immagini di bambini e adulti scheletrici, Giordania, Emirati Arabi, Canada, Francia, Belgio e Germania hanno messo a disposizione gli aeroplani. L’Italia partecipa ma non decolla, per ora: nell’hangar della base di Zarqa ci sono dieci bancali di alimenti e forniture farmaceutiche con la bandiera tricolore e il logo Food for Gaza, alcuni dei quali confezionati il 23 giugno, più di un mese fa.Sul C-130 giordano i pallet sono disposti al centro della fusoliera, imbragati con funicelle e lacci che gli avieri di Sua Maestà controllano e ricontrollano. Il paracadute si deve aprire subito, in automatico: se la calotta dovesse rimane chiusa, una cassa dal peso di una tonnellata si sfascerà al suolo, uccidendo al pari di un razzo. L’anno scorso i lanci umanitari hanno causato cinque morti e decine di feriti. Il loadmaster, un militare alto e giovane di nome Ahmad, con le dita indica i minuti che mancano. Dieci, sei, uno, il pugno chiuso: siapre il portellone della rampa di scarico.Gaza non è fotogenica. Neppure al sole di agosto, che rende la Striscia una tavolozza di grigi e di gialli sporchi. L’annientamento non viene mai bene nelle foto e non dipende dall’angolatura. In alcuni punti Gaza assomiglia alla superficie della luna: nient’altro che frammenti e polvere, nessuna testimonianza di vita, al posto dei crateri delle righe sabbiose che la tagliano e compongono dei reticolati irregolari. «Una volta erano strade», dice uno dei piloti, che non vuole essere citato con nome e cognome. «Non ci si può abituare a questa distruzione, neanche se faccio cento sorvoli».L’Hercules ha inizialmente puntato su Tel Aviv, poi ha fatto un’ampia virata sopra il Mediterraneo ed è entrato, da nord, nello spazio aereo di Gaza. Nessuno ha imposto limitazioni o divieti alle foto e ai video girati dai finestrini. La terra bruciata di Atrata, incolta, deserta, è la prima che si incontra. Il campo profughi di Jabalia, assediato dall’esercito di Israele da ottobre a dicembre 2024 per la caccia ai comandanti di Hamas, non esiste più. I quartieri hanno perso i connotati urbani. Si riconosce al Shati, vicino al mare. Tra gli interstizi delle macerie, negli anfratti tra una rovina e l’altra, sono sparsi migliaia di coriandoli. Che non sono coriandoli, sono gli sfollati diGaza, i senza casa, i sopravvissuti.I coriandoli si muovono tra le tessere biancastre di un mosaico folle: le tendopoli, sorte dove capita, al centro dei crolli, nel mezzo alle vie di sabbia, accanto ai palazzi diroccati, sul molo di Gaza City. Ha ragione il pilota, alla distruzione non ci si abitua mai. Manca lo spazio, a Gaza. E una via d’uscita.Le calotte grigie a cui sono appese otto tonnellate di roba da mangiare si distinguono dalla quinta entro cui planano solo perché, al sole, luccicano. La Striscia in sottofondo è grigio spento. Uno degli avieri giordani passeggia a una spanna dal vuoto, il suo compito è avventurarsi fin sul limite della rampa di scarico per controllare che i paracaduti si siano aperti e riferire se più o meno stanno scendendo dove volevano. L’aereo ha rallentato a una velocità di 200 chilometri all’ora, a 600 metri di altitudine. Su quel che resta del porto di Gaza City, vira di 180 gradi. Un’operazione spettacolare, certo. E costosissima.Il Centro per gli studi strategici e internazionali (Csis), think tank con sede a Washington, stima che un’ora di volo di un C-130 costi solo di carburante almeno 8.000 dollari. La missione, andata e ritorno,è durata due ore, quindi 16.000 dollari per gettare sui gazawi 8 tonnellate di cibo. Un camion ne trasporta il doppio e di benzina consuma, calcola il Csis, 2.25 dollari a miglia: per effettuare un viaggio dal Cairo a Rafah (430 miglia) si pagano 970 dollari. Quasi venti volte di meno, per consegnare il doppio.Che cos’è, dunque, se non la cronaca di una sconfitta? Organizzare l’ingresso degli aiuti umanitari via terra sarebbe molto più semplice, ma il sistema si incaglia sulle limitazioni imposte dal governo israeliano, sulle contingenze di una zona di conflitto attivo che rendono complicata la distribuzione e sulla disperazione della gente che assalta i convogli. I voli umanitari sono scenografici e talvolta mortali. Appena il C-130 atterra alla base, sul telefonino appare il messaggio di Sami Abu Salem, il giornalista di Gaza che collabora con questo giornale. «L’infermiere Udai al-Quran è stato ucciso a Deir al Balah da un carico paracadutato dal volo precedente al vostro. Ho visto i paracadute ma erano troppo lontani, troppo difficile arrivarci, so che c’è gente che va con mazze e coltelli. È troppo umiliante e pericoloso».