la Repubblica, 4 agosto 2025
Vittorio Lingiardi ricorda Giovanni Testori con una vecchia intervista
Avevo vent’anni e leggevo Pasolini. Le sue poesie mi entusiasmavano, il suo cinema mi rapiva, la sua morte mi turbava. Collaboravo ogni tanto con Radio Popolare, nella leva di quei giovani milanesi cresciuti con Black Market dei Weather Report, tuttora sigla musicale del notiziario.Era il maggio del 1982. Alla Sala Fontana di via Boltraffio, il Movimento Popolare, espressione politica di Comunione e Liberazione, organizza una rassegna intitolata L’imminenza di Cristo in Pasolini.Un bel titolo, che nelle anime partigiane del tempo viene vissuto come “scippo culturale”. Io ero un’anima partigiana, ma la questione dello scippo culturale mi sembrava idiota. Proposi a Radio Popolare un ciclo di interviste con questo titolo: Di chi è Pasolini? Per primo volli intervistare Giovanni Testori, così lontano eppure così vicino a Pasolini. Il cattolicesimo, l’omosessualità, la poesia. Mi procurai il numero di telefono e gli chiesi udienza. La sua voce cavernosa mi convocò nello studio di via Brera 8, dove arrivai con il mio registratore Sony e un certo timore.Fu un bel dialogo e la nascita di un’amicizia che durò fino alla sua morte, nel 1993. Incontrare Testori a vent’anni è stata una benedizione e ovviamente una maledizione.Qualche mese fa, mettendo a posto vecchie scatole di ricordi, mi capita in mano un’audiocassetta verde, l’etichetta dice “Intervista a Testori”. Dura poco più di mezz’ora, ne riporto qualche passo.Buongiorno Testori. Una parte della cultura cattolica sta interessandosi aPasolini non per scagliare anatemi, come finora ha fatto, ma anzi per ritrovare affinità. Ferdinando Camon, su “Panorama”, usa l’espressione “scippo culturale”. Che ne pensa?«Un autore è lì e la sua opera manda degli allarmi, delle sollecitazioni. Ora, che questi allarmi, queste sollecitazioni, vengano accolti dai cattolici, e i cattolici cerchino di capire con un po’ di apertura, con più amore, disposizione e bisogno, quello che Pasolini ci ha lasciato, mi pare solo la prova di un’attenzione. Anche perché non credo che i cattolici vogliano appropriarsi di Pasolini, come non dovrebbero appropriarsi di un bel niente.Se mai dovrebbero leggere e rileggere tanta cultura contemporanea, soprattutto quella che ha lanciato ombre, urli e dubbi su dove stava andando la cultura consumistica o comunque capitalistica, la cultura della resa della borghesia. Credo che la lezione che potrebbero ricevere da questa cultura e anche i punti di contatto siano fortissimi».Quali sono i punti di contatto con Pasolini?«La sua storia nasce da una matrice culturale e familiare di paese, di tradizione e lingua cattolica. I suoi primi libri, le poesie in friulano, L’usignolo della Chiesa cattolica, sono lì a dimostrarlo. E sono lì a dimostrarlo anche i suoi film più belli che a mio avviso sono Il Vangelo e La ricotta.Il punto di contatto è questo: non poter tradire la propria nascita. Pasolini se l’è portata sulle spalle e nel cuore, perché non è stata solo un peso, è stata anche una luce».Il suo ultimo film, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, le è piaciuto?«Sì, l’ho difeso allora e lo difendo ora (come Pasolini nel 1960 difese Testori durante lo scandalo dell’Arialda, ndr).Nonostante, o dentro, certi estremi di masochismo e di sadismo a cui negli ultimi tempi era arrivato, probabilmente costretto da eventi della sua vita privata.Ma c’è, nella sequenza finale, una pietà profondamente cristiana. In termini figurativi ci arriva servendosi di un cannocchiale da cui ci fa vedere torture ed esecuzioni rappresentate come tondini d’antica predella di un polittico. Emerge sempre in Pasolini, soprattutto nel regista e nel poeta, questo appoggiarsi, non per stanchezza, ma per stabilire un riferimento, a elementi di espressione visiva o verbale profondamente inseriti nella tradizione nazional-popolare e dunque anche cattolica. Ma poi ci sono untale pianto, una tale coscienza della ferita dell’uomo, che un vero cattolico, anzi un vero uomo, non può non esserne preso, affascinato e chiamato in causa».Nella cosiddetta “Trilogia della vita”, il sesso per una volta è anche una gioia fisiologica. Con che occhi lo guarda il pubblico cattolico?«Non sono d’accordo che ci sia gioia. Non credo che Pasolini sia mai arrivato a questa gioia pagana, tra l’altro in quei film che ritengo i suoi meno belli, i più decadenti. Lo stesso nei romanzi. Certi mondi, certi argomenti, li ho affrontati anch’io, ma se c’è un limite in Pasolini è proprio quando affronta l’avvenimento sessuale. Ecco, lì è sempre … pascoliano. Non c’è mai una storia d’amore, l’amore non è mai portato fino alla consumazione, allo strazio, rimane sempre un po’ sulla linea di Saba, lì con più liricità e purezza, Pasolini con più fogna, ma rimane dentro questo limite. A me pare che l’amore omosessuale vero, tragico e lucente è quello dei sonetti di Michelangelo e Shakespeare, non è quello lì. C’è qualcosa di fugace, come una leggera isteria, invece di un’umana e totale compromissione di sé nel rapporto d’amore. Questo per me è forse il punto più debole di Pasolini, dove la sua letteratura a volte rischia di non reggere. I suoi personaggi non hanno fondo, non sono mai persone, capisci?, sono tutte occasioni di un suo proprio diletto, di una sua perdizione, ma non sono mai persone».Perché?«Non posso entrare così dentro. Ma è come se desse un limite alla vastità, alla compenetrazione e alla chiamata in causa del lettore in questo suo amore. Infatti non dava mai un nome a queste persone, non ci sono nomi, solo soprannomi. E non per levità, che può essere profonda anche la levità. È che non esistono lo scontro e l’incontro d’amore in cui giocarsi la vita».Pensa che un cattolico si possa astenere dal giudicare la persona omosessuale?«Io credo che un cattolico non debba giudicare proprio niente».Ma questo non succede.«Non succede perché noi cattolici sbagliamo. Io posso dire che è scritto questo, ma quando da ciò che è scritto passo all’uomo, prima di tutto c’è il mistero dell’uomo. Quindi il rispetto più totale di ciò che avviene nella vita di un uomo.Pensa a Bacon. Gli hanno chiesto perché avesse dipinto delle crocifissioni, che poi sono macellerie. E Bacon, che non è cattolico, ha detto: perché quando mi sono trovato a meditare sul dolore ho capito che il luogo del dolore è la croce. Una frase dacui noi cattolici abbiamo solo da imparare».Ha conosciuto Pasolini?«Sì, solo due volte. E due volte ho litigato. Dopo questi due incontri ci vedevamo e non ci salutavamo. Ma una volta, a Parigi-Orly, aspettavamo lo stesso aereo, che era in ritardo per la nebbia. Siamo stati sei ore uno di fronte all’altro. Ogni tanto proprio guardandoci. Pensando: perché nessuno dei due fa uno sforzo per salutare, ciao e ciao, e ci mettiamo aparlare? Se uno di noi avesse voluto evitare, bastava alzarsi e cambiare posto.Invece abbiamo tenuto questo stare di fronte. Per me è un ricordo angoscioso e crudele, un’immagine e una tensione che non dimenticherò. Perché sono certo che quello che sentivo io, lo sentiva lui.Altrimenti due non si guardano così.Come a dirsi: cosa aspettiamo a risalutarci, a riparlarci? Lo sapeva che avevo una grandissima stima di lui».