la Repubblica, 4 agosto 2025
L’estate che segnò Gian Marco Griffi
Quell’estate lì, quella in cui i lavoratori che costruivano la ferrovia di Cleveland smisero di costruire la ferrovia di Cleveland per sciamare all’incrocio tra la East 105th Street e la Euclid Avenue e assistere all’inaugurazione di un prodigio tecnologico che avrebbe regolato il traffico automobilistico tramite una colonnina con quattro coppie di luci rosse e verdi, insomma l’estate 1914, cominciata con un arciduca ammazzato, proseguita con una ruvida levatrice cinquantenne di ceppo germanico di nome Brunhilde che entrò in una bettola monferrina e, sbiluciando le teste dei giocatori di carte, dichiarò con tono solenne che la sua Germania era finalmente entrata in guerra contro l’abominevole Francia, Carlo seguì i posatori di rotaie e andò a vedere coi propri occhi il nuovo portento ingegneresco che avrebbe lasciato la popolaglia a bocca aperta; Carlo e sua moglie Berenice, incinta di quattro mesi, avevano un chiosco mobile e di mestiere davano da mangiare a quelli che costruivano la ferrovia, ma in quel momento la ferrovia non la stava costruendo nessuno, giacché quegli sbadiglianti battisudòri erano tutti all’incrocio tra la East 105th Street e la Euclid Avenue per ascoltare la Cleveland Imperial Kazoo & Sousaphone Synchronized Extravaganza Band (con sezione ottoni e tamburi della Fratellanza boema), e soprattutto per ammirare lo spettacolo delle majorette, sbarbine sfrontate in calzamaglie di seta luccicante e stivaletti dorati, che roteavano bastoni lucenti con nastri rossi e blu lanciandoli in aria tra due fischi e un colpo di grancassa, e sorridevano con denti bianchissimi puntando le ginocchia verso il cielo. E lì, in quell’incrocio americano che sapeva di lillà e catrame sciolto e chewing-gum alla liquirizia, at 5 PM, nell’esatto istante in cui la prima luce rossa della storia universale dei semafori stradali lasciava posto allaprima luce verde della storia universale dei semafori stradali, Carlo, un piemontese allampanato con una letale passione per Shakespeare e per le sculture cimiteriali barocche, decise che suo figlio (in realtà una figlia) sarebbe nato in Italia, a casa sua, nella casa dove anche lui era nato, a Montemagno, uno spavaldo paesucolo del Monferrato. Non a Cleveland, Ohio, dove Carlo e Berenice stavano facendo i soldi arrostendo salsicce e pancetta affumicata per quelli che costruivano la ferrovia. Non a Cleveland, Ohio, dove un corrusco apparecchio regolava il traffico automobilistico tramite una colonnina con quattro coppie di luci rosse e verdi.Non a Cleveland, Ohio, dove avrebbero potuto far nascere la bambina in una clinica pulita emoderna, con bianche ostetriche in grembiuli stirati e scespiriani medici armati di forcipi fatati, dove il primo vagito di sua figlia sarebbe stato accompagnato dall’odore del sapone ai fiori d’arancio razziato nei lavatoi per immigrati. Non a Cleveland, Ohio, dove irlandesi grassi e ciucchi recitavano l’orazione funebre di Marco Antonio nei bar. Macché. Suo figlio (in realtà una figlia) sarebbe nato in Italia, a Montemagno, dove Shakespeare era il nome di un cavallo da corsa, nel retrobottega di una drogheria, tra sacchi di ceci e damigiane di vino, tirata fuori da una virago mezza crucca che pareva uscita da Rabelais ma che, per misteriose ragioni, detestava i francesi (per detestare i francesi non serve una ragione, ripeteva, basta annusarne uno).Carlo passò le notti di quell’estate a osservare i rari automobilisti arrestarsi alla luce rossa e ripartire alla luce verde, ponzando e riponzando con cupa malinconia e comica goffaggine sui suoi bivi nel tempo (luce rossa resto in America, luce verde torno in Italia). Infine, un mattino di metà settembre, informò Berenice che non appena possibile sarebbero partiti per l’Italia. Berenice non fece domande. Si limitò a baciarlo sulla fronte e a dire: va bene; e mentre lo baciava sentiva che il futuro non era mai stato tanto polveroso. Un mese dopo erano in Monferrato. Avevano lasciato il chiosco al loro garzone, un toscano con la faccia adiposa che tradiva un curioso miscuglio di rudezza e grazia. Carlo lo aveva preso da parte e gli aveva detto: me ne vado in Italia, faccio nascere mio figlio (in realtà una figlia), e torno. E così accadde, più o meno: si imbarcarono sulla Doralice, un transatlantico appena varato, e tornarono in Italia; ai primi di dicembre Brunhilde fece nascere Maggie. Sei mesi e ce ne torniamo in America, disse Carlo a Berenice. Era la vigilia di Natale del 1914.Il ventiquattro maggio 1915, due ragazzotti ai margini di una redola del Friuli, alla periferia di un paese contadino qualsiasi, facevano le linguacce a un distaccamento dell’esercito italiano in marcia verso l’Impero austro-ungarico: i militi erano silenziosi, eppure stranamente tronfi; confusi, eppure maldestramente ordinati, con le giberne piene e le baionette lucidate come specchi da parata; tra di loro, con poca carne sullo scheletro smisurato, c’era anche Carlo. Aveva ricevuto la cartolina di precetto nove giorni prima di imbarcarsi sulla Bradamante, un transatlantico che lo avrebbe riportato a New York, e ora le sue mani irruvidite, che pendevano dai polsi ossuti come possenti rocce scure, anziché una pinza per salsicce impugnavano un fucile Carcano modello 91 con cui sparare alle chiappe degli austriaci. Al fronte Carlo incarnò il meglio della schiatta di commercianti sabaudi e campagnoli monferrini, esibendo astuzia e coraggio.Scrisse decine di lettere, come tutti (nella nona, a Berenice, definì l’esperienza semaforica di Cleveland la sua «epifania», «l’episodio più rilevante della mia vita»). Come tutti scatenò, alla bisogna, il lato brutale della sua umanità, solitamente pacata e cortese, assaltando e sparando e sbaionettando. Al garrulo sibilo d’un fischietto da arbitro patì un mondo oscuro dissanguato d’ogni gentilezza: ciurmaglie di giovani magri come serpenti che si impolveravano sul campo di battaglia sperando che il colpo d’obice passasse un po’ più in là, che il proiettile ronzasse un centimetro sopra quei capelli gretti e sfibrati che ricoprivano i loro autunnali destini. Un giorno di luglio 1916 saltò in aria su una mina kaiserlich und königlich che la natura aveva abbellito con una macchia di cerulei nontiscordardimé; un attimo prima era rapito dall’odore del sole che picchiava sulla canna del suo fucile con lampi bluastri, tre mesi dopo era a casa con una gamba in meno, e a Cleveland non sarebbe più tornato.Aprì un ristoro allo sferisterio di Montemagno, per i giocatori di pallone col bracciale, e fece in tempo ad avere un altro figlio: Dante, mio nonno.E insomma, non riesco a immaginare un’estate che mi abbia cambiato la vita più di quella vissuta da Carlo al cospetto del primo semaforo elettrico, a Cleveland, all’incrocio tra la East 105th Street e la Euclid Avenue.